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La riflessione
Leonardo Petrocelli
07 Agosto 2019
Chi è il «prossimo tuo»? È tutta qui la radice della guerra aperta che si sviluppa, ormai da mesi, tra una parte del mondo cattolico, papa Francesco in testa, e il vicepremier Matteo Salvini. Entrambi, il successore di Pietro e il ministro, hanno un profilo populista: il primo squisitamente sudamericano, dai residuali echi peronisti; il secondo riscritto secondo la grammatica del nuovo sovranismo occidentale. Tutte le strade, però, portano a Roma che, nella fattispecie, è la difesa degli «esclusi della globalizzazione», espressione d’obbligo per chiunque voglia farsi carico delle esigenze dei più deboli.
Ma è a questo punto che il gioco si spariglia.
Bergoglio guarda lontano, a chi arriva da quella fine del mondo da cui è sorto anche lui. Salvini, invece, si ferma sull’uscio di casa per soccorrere il vicino. Con un’altra lettura, si potrebbe dire che il Pontefice inquadra gli «ultimi», cioè i migranti; Salvini i «penultimi» cioè, detta volgarmente, i bianchi italiani messi all’angolo dalle iniquità del capitalismo planetario. Il gioco delle etichette, naturalmente, è pericoloso. Se i migranti sono effettivamente in fondo alla catena sociale per possibilità e disponibilità economiche, è anche vero che gli italiani in affanno hanno, per anni, goduto di molta meno stampa e molte meno «coccole verbali». Non saranno «ultimi» ma, nell’era ante-Salvini, erano troppo spesso invisibili. Da cui la rancorosa salita su quel Carroccio che, da qualche tempo a questa parte, si orna e adorna di rosari, vangeli, croci e richiami alla Madonna. Con il risultato di aver fatto esplodere in modo detonante un conflitto che strisciava sottotraccia da un pezzo.
E tra un Decreto sicurezza dedicato alla Vergine e un titolo di «Famiglia Cristiana» che intima il vade retro al satanasso leghista, finisce che a parlare sono i numeri: la maggioranza relativa dei cattolici praticanti (e votanti), stando almeno alle recenti stime sondaggistiche, ha scelto il Capitano. Una sorpresa? Non proprio.
Già la Polonia e l’Ungheria raccontano della riuscita degli esperimenti catto-sovranisti, lì declinati in salsa anti-islamica, qui con un più generico anti-immigrazionismo. Con qualche riferimento nobile, a cominciare da quel cardinale americano, Raymond Burke, ormai investito del ruolo di anti-Bergoglio. A lui, Salvini è arrivato tramite l’ideologo conservatore Steve Bannon all’interno di un processo culturale che tende ad arruolare Giovanni Paolo II e Benedetto XVI quali ultimi Pontefici di un’Europa più o meno identitaria.
Al netto dei giudizi e dei giochi di palazzo, il racconto pare funzionare anche perché i cattolici praticanti sono spesso annidati proprio fra le fila di quei «penultimi» di cui sopra: blocco confessionale e blocco sociale possono sovrapporsi. E l’inesausta predicazione del Papa? Il Pontificato dell’accoglienza, quello tutto votato «alla conversione dei cuori razzisti», raccoglie illustri e nutriti consensi, spesso trasversali e di livello. Ma con una piccola postilla: proprio i più entusiasti sostenitori dell’azione pontificale, cioè i liberal e i progressisti di varie fogge, sono quelli che non vanno a messa. Idolatrano Francesco, lo ringraziano per essere l’unica opposizione esistente al sovranismo, ne ammirano la tenacia incrollabile, ma si tengono ben lontani da altari e sacramenti. Insomma, l’azienda piace ma non fattura. E così, alla fine della giostra, i conti non tornano: le chiese si svuotano e le urne leghiste si gonfiano.
Tuttavia, l’inciampo è dietro l’angolo anche per il titolare del Viminale che, ormai, ha fatto suoi tutti gli stilemi del predicatore protestante (il populismo, si sa, è anche spettacolo). Ostentare simboli religiosi nell’agone politico non è un fatto nuovo nella storia politica italiana, avviata dalle madonne piangenti di democristiana memoria. La novità è l’ostentazione in un’epoca laicissima come quella presente: un «contropiede» comunicativo, certo, ma anche un possibile boomerang. Basta dare un’occhiata ai social: gli unici post di Salvini non omaggiati da una venerazione senza sbavature sono proprio quelli dedicati a Vergini e rosari. Il fastidio, se non proprio il dissenso, abbonda anche fra i suoi. D’altronde, l’Italia non è né l’Ungheria né la Polonia. Non è un Paese post-comunista affamato di riferimenti confessionali. A tanti l’overdose religiosa non va giù. Così come, ad altrettanti, «stufa» il predicare monotematico di Francesco che batte sempre, in modo quasi ossessivo, sullo stesso tasto, finendo per sembrare elitista e dimentico di chi non sopraggiunge con un barcone. Il troppo stroppia sempre. Ma, negli anni del populismo, è ormai la matrice di tutto.
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