La forza di un Paese è nell’innovazione. Nella possibilità, attraverso la ricerca, di essere al passo coi tempi, di promuovere – e di anticipare – i mutamenti economici, sociali e culturali che l’evoluzione di scienza e tecnica impongono. Se così è, risuonano come altamente preoccupanti le dichiarazioni del ministro dell’Economia Giovanni Tria che ieri ha lanciato, senza giri di parole, un allarme inequivocabile: «stiamo disperdendo talenti ma anche risorse». E sì, perché la fuga di cervelli all’estero, ciclicamente evocata e altrettanto rapidamente riposta nel cassetto, produce una perdita di poco inferiore ai 14 miliardi di euro all’anno. Quasi l’1 % del nostro PIL.
Siamo sicuri, purtroppo, che la notizia è destinata a finire repentinamente nelle pagine interne dei giornali e nei titoli di coda delle news divulgate via tv e web, per poi scivolare rapidamente nel dimenticatoio sovrastata dalle sfide quotidiane a singolar tenzone dei leader del nostro esecutivo.
Eppure, si tratta di un dato su cui occorrerebbe riflettere a lungo, e il fatto che sia stato richiamato da chi ricopre un ruolo di rilievo nel governo potrebbe alimentare la speranza di un’inversione di tendenza rispetto a un orientamento da tempo consolidato nel nostro Paese. Perché, sia ben chiaro, non è ascrivibile soltanto all’attuale esecutivo una visione miope dei rapporti tra sapere e sviluppo della società. Alcuni anni fa Giulio Tremonti, da ministro dell’Economia e delle Finanze, affermò che «con la cultura non si mangia», sollevando un vespaio di polemiche. Salvo poi ravvedersi qualche tempo dopo, quando scrisse a quattro mani con Vittorio Sgarbi il libro Rinascimento. Con la cultura (non) si mangia. Si riferiva alla cultura umanistica, che considerare però scissa dagli altri saperi appare riduttivo e superato. Non è un mistero – giusto per fare qualche esempio – che dottori in filosofia occupino posizioni nodali in numerose aziende, così come è a tutti nota la rilevanza di chi ha studiato scienze della comunicazione nelle dinamiche della società contemporanea.
Resta il fenomeno – indiscusso e indiscutibile – della fuga delle nostre eccellenze dallo Stivale, magari dopo aver acquisito in patria una formazione evidentemente ritenuta idonea in Paesi pur esigenti nel valutare conoscenze e competenze e nel reclutare capitale umano, considerata invece non bastevole – o meglio, ignorata – dal mondo del lavoro nostrano. Quasi una diaspora delle nuove generazioni costrette a disperdersi qua e là nel globo, non per esterofilia ma per necessità. Ecco allora, è vero, con la conoscenza non si mangia, ma solo in Italia. Siamo nei tempi della globalizzazione, certo, i confini nazionali sono ormai impalpabili, ma questo non significa che si debba assistere indifferenti ad un impoverimento sistematico delle nostre risorse umane, senza le quali capitali e impianti sono semplice arredo, a tutto vantaggio dei nostri competitors. In prospettiva, visto nel lungo periodo, questo trend può condurre ad un arretramento significativo nel panorama internazionale dell’Italia, già da tempo in affanno rispetto a colossi in espansione come Cina ed India (e non solo).
Paesi nei quali, non a caso, la rivoluzione digitale è in cima all’agenda politica. Da noi, invece, si arranca e invece, come ha detto Tria, «non si passa al fianco della trasformazione digitale: o ne siamo protagonisti o la subiamo», con riflessi – se dovesse prevalere la seconda opzione – di carattere politico. Ogni rivoluzione economica è stata scandita da una materia prima, ed oggi questa non è naturale (oro, carbone, petrolio) ma immateriale (dati). Si può scegliere di essere semplici utenti digitali od invece creatori digitali. E, soprattutto, occorre ricordare che il 65% dei bambini che si affacciano oggi alla scuola primaria svolgerà un lavoro che ancora non esiste.
A riprova della minore capacità del nostro Paese di trasformare conoscenze e competenze in lavoro vi sono le statistiche del tasso di occupazione a tre anni dei laureati nell’Ue, elaborate da Eurostat: 94,8% nei Paesi Bassi, 94,3% in Germania, 85,5% la media europea, appena il 62,8% in Italia (peggio di noi soltanto la Grecia, 59%).
Cervelli in fuga, dunque.
Per mancanza, nel nostro tessuto economico, di sbocchi destinati a chi ha una formazione specifica che inducono – lo rileva anche il presidente di AlmaLaurea Ivano Dionigi – «una quota sempre maggiore di giovani formati nel nostro Paese» a lavorare «oltreconfine dove le loro competenze sono maggiormente valorizzate e le retribuzioni sono elevate».
In fuga da un’Italia miope.
È questa la vera emergenza in materia di flussi umani (in entrata o in uscita). Un’emergenza silente, priva di riscontri immediati sotto il profilo del consenso e per questo sostanzialmente ignorata sul piano politico. E che magari stride con i fautori dell’“uno vale uno”, inteso come deprezzamento delle competenze, del merito e del cursus honorum e come esaltazione dell’appiattimento globale e della conoscenza infinita attinta dal web. Ai quali andrebbe ricordato che «il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza» (Daniel Joseph Boorstin, scrittore statunitense vincitore del Premio Pulitzer per la storia nel 1974).