Chi gli voleva bene diceva che Aldo Moro (1916-1978) era insuperabile nei ragionamenti a incastro. Chi gli voleva male diceva che Moro era imbattibile nei discorsi divagatori (il «Dottor Divago» l’impietosa istantanea montanelliana), quelli che, a loro giudizio, si distinguevano, anche, per oscurità e complessità. Moro li lasciava disquisire e sproloquiare, anche perché lui era provvisto di due doti non facilmente rintracciabili (non solo) nelle stanze della politica: la pazienza e l’autoironia. «Abbiamo tutti bisogno di un po’ di pazienza», sussurrava il Nostro quando i tavoli della discussione s’arroventavano come gironi infernali.
E quanto all’autoironia, è sufficiente ricordare la nonchalance di Moro davanti al grande Eduardo De Filippo (1900-1984) che aveva pensato bene di regalargli una foto con dedica, deturpata, però da un piccolo particolare: era, proprio la dedica, indirizzata a Emilio Colombo (1920-2013). Moro reagì con classe. Con il solito aplomb. Non nascose il dono del gaffeur Eduardo. Anzi, lo mostrò divertito ad amici e colleghi. Per dire.
Moro oscuro e complesso? Bah. Lui era al corrente che il pissipissibaobao sulla sua persona si basava su questi due aggettivi. Ma non se ne dava pena. Rispondeva alla sua maniera. Con stile e distacco, senza disdegnare il tocco didascalico-professorale. «La semplificazione - ricordava - può sembrare un contributo alla chiarezza, ma in definitiva nasconde un impoverimento della verità».
Come dargli torto? Come si può immaginare di risolvere problemi complessi di società complesse a colpi di slogan, battute, tweet e veleni sui social?
Moro era consapevole che la comunicazione è essenziale alla politica. Ma sapeva anche che c’è comunicazione e comunicazione. A lui, per esempio, non piaceva la televisione. Cercava di sottrarsi a interviste e agganci mediatici vari, salvo che per gli appuntamenti canonici, tipo Tribuna Politica. Ma anche in queste circostanze marcava le distanze, teneva il punto, ribadiva il suo essere un politico renitente alle cartoline di precetto inviate da Sua Maestà la Moda. Addirittura rifiutava, Moro, di entrare in sala trucco, prima di ogni Tribuna Politica. Voleva presentarsi davanti ai telespettatori, così com’era, anche con il viso provato, ancora più sofferto dopo una giornata di riunioni agitate ed estenuanti.
Era il giornale lo strumento informativo (più che comunicativo) che stava a cuore a Moro. Era il giornalismo scritto la sua seconda passione. L’uomo martirizzato dalle Brigate Rosse è stato rapito con la penna in mano. Infatti. Stava vergando un editoriale per Il Giorno di Milano la mattina del 16 maggio, e un paio di settimane prima aveva inviato una riflessione a La Gazzetta del Mezzogiorno.
Ieri alla Regione Puglia, su iniziativa del Presidente del Consiglio pugliese Mario Loizzo e dell’onorevole Gero Grassi, promotore dell’ultima commissione parlamentare sul caso Moro, è stata presentata la mostra degli articoli e delle foto della Gazzetta nei 55 giorni più drammatici della Repubblica.
Abbiamo già ricordato, domenica, il ruolo decisivo svolto da Moro nella rinascita di questo giornale in una fase - siamo negli anni Settanta - complicata e gravida di pericoli sia per il foglio fondato nel 1887 da Martino Cassano (1861-1927) sia per il resto della stampa italiana. Ma quell’attaccamento di Moro al quotidiano della sua regione non era dettato, soltanto, dall’affetto nei confronti di un simbolo della sua terra. L’interessamento di Moro alla sorte della testata era in linea con la sua visione e le sue preoccupazioni sul futuro della democrazia italiana e del giornalismo tradizionale in generale. I nuovi modelli di comunicazione (l’informazione è un’altra cosa) stavano assestando i primi colpi alla democrazia parlamentare. Già si scorgevano le lucine di quella volontà di democrazia diretta, che poi è la democrazia guidata, che successivamente avrebbero accecato il sistema politico, e l’opinione pubblica, con l’intensità di due fari abbaglianti.
La ragione, l’obiettivo di Moro, invece, è la democrazia operante. Lui vuole rafforzare un modello politico che agisca senza conati autocratici e senza tentazioni assembleari. L’informazione scritta è il fertilizzante più collaudato per concimare la democrazia operante. Non è - noterebbe oggi Moro - l’assenza del Parlamento a spianare la strada alla democrazia diretta/guidata, bensì l’eutanasia dell’informazione, soprattutto quella dei giornali cartacei. Moro aveva iniziato a percepire la gravità della crisi del sistema parlamentare, e la collegava, anche, all’inflazione della smania pubblicitaria, all’ossessione dello sgomitamento mediatico. E per un leader, il cui orizzonte era la difesa dell’intero sistema rappresentativo, era naturale che fossero i giornali i baluardi della democrazia dei moderni, era logico che fossero loro la principale risorsa da preservare.
Possono sembrare, le riflessioni testé riproposte, discorsi astratti, lontani anni luce dalla realtà. Invece parlano di noi, della nostra realtà, del nostro vissuto, dell’eterno ieri, del fugace oggi, dell’incerto domani. Parlano dei rischi che corre la libertà.
Forse anche per questa ragione Moro procedeva con i piedi di piombo alla vigilia di scelte importanti, rischiando spesso di subire l’ironia di Pietro Nenni (1891-1980), suo vice a Palazzo Chigi: «Moro alla fine di un incontro concludeva così: non mi sembra che ci siano le condizioni per decidere».
E ti credo. Oggi, per capirci, il rischio di sbagliare predisponendo soluzioni facili per problemi complessi si è moltiplicato, è ormai più concreto di un congiuntivo devastato in una diretta tv dal Parlamento.
Ecco perché l’informazione, che ovviamente dev’essere sostenuta dallo studio permanente, diventa sempre più cruciale per le sorti della democrazia. E tra le lezioni/preoccupazioni di Moro, spesso profetiche oltre che tragiche, quella sulle conseguenze deleterie dell’informazione sciuèsciuè non occupa di sicuro il fanalino di coda.