Al Duce piaceva un sacco comandare e asservire gli italiani da Palazzo Venezia. Ma c’era un’attività che, forse, gli piaceva ancora di più: dirigere l’intera stampa nazionale. Del resto, Benito Mussolini (1883-1945) non smise di fare il giornalista neppure da padrone dell’Impero. Collaborava al Los Angeles Times, ma, soprattutto, amava controllare i quotidiani dello Stivale, dei quali era il capo redattore occulto o addirittura il direttore ombra. In realtà, il suo compito era facilitato dalla censura e dall’autocensura che caratterizzano tutti i regimi illiberali. Ma il Duce era un tipo pignolo. Non si fidava mai. Correggeva i titoli, segnalava gli argomenti, modificava le impaginazioni. Voleva essere il protagonista e il narratore di ogni evento. Obiettivo: magnificare l’opera e le opere del fascismo, che poi era mussolinismo allo stato puro. A dire il vero, il desiderio di mettere le mani sull’informazione, per condizionarla o per neutralizzarla, non si manifesta solo nella scuola dei dittatori. Anche nelle democrazie, la libera stampa viene spesso considerata un intralcio all’azione dei governanti, che, di sicuro, ogni mattina, consumerebbero colazioni più tranquille se l’informazione battesse in ritirata o se smettesse di voler rovistare nelle stanze dei bottoni.
Nella storia, il primo round di boxe tra il Potere e l’Informazione non l’ha certo combattuto, per la squadra dei governanti, Luigi Di Maio. Non c’è governo democratico, non solo in Italia, che non abbia mai espresso, in passato, la sua contrarietà, spesso un’esplicita ostilità, nei confronti del cosiddetto Quarto Potere. Inutile elencare i nomi dei leader politici perennemente scatenati contro le redazioni: si rischierebbe di stilare una lista incompleta. Ma stavolta l’offensiva nei confronti dei giornali sta assumendo un significato più preoccupante e dirimente, perché l’Italia e l’Europa sono a un bivio e perché è in ballo lo stesso assetto istituzionale che ha retto il Vecchio Continente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Sostiene Di Maio che i giornali stiano tifando per partito preso, insieme con altri gruppi d’interesse, a favore dello spread e contro la manovra del governo. Simultaneamente, il vicepremier intona il De Profundis alla stampa scritta, ormai soppiantata, a suo giudizio, dalla Rete e dall’informazione diretta.
Che dire? Intanto, non tutta la stampa scritta è ostile al tandem Di Maio-Salvini. Ci sono organi d’informazione più severi, altri più indulgenti, altri dichiaratamente favorevoli. Ma il punto non è questo. Il punto è il giudizio tranchant, sul ruolo dei quotidiani, espresso dal leader grillino.
Delle due l’una: o i giornali non contano nulla perché, come sostiene Di Maio, sono con un piede nella fossa. E allora non si comprende perché il vicepremier se ne occupi e se ne preoccupi costantemente, senza un attimo di pausa. Se i giornali sono davvero un reperto archeologico perché dedicare loro tanta attenzione, col rischio di contribuire al loro revival?
Oppure i giornali contano ancòra, anzi, per certi versi, contano ancòra di più. Il che spiega l’insofferenza di Di Maio, sulla scia di molti suoi predecessori, verso la stampa in genere, oltre che verso i fogli più critici nei confronti del governo. Il che, però, non giustifica gli attacchi verso un settore che costituisce l’architrave di una democrazia. Le democrazie, è bene ripeterlo in ogni circostanza, non si caratterizzano per la presenza dei tre poteri classici (legislativo, esecutivo e giudiziario), dal momento che questi tre poteri convivono più o meno pacificamente anche negli Stati assolutistici. Le democrazie si distinguono dalle autocrazie per la presenza e, soprattutto, per l’azione di una stampa libera, priva di complessi e di sudditanze nei riguardi di chi è al Potere. E se, per ipotesi, un sistema democratico si trovasse nella situazione di scegliere cosa salvare, tra governo e informazione, la risposta dovrebbe ricalcare quella che diede Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti: «Tra il governo e la stampa, salverei la stampa».
Si dice. Ma oggi c’è la Rete, con la sua informazione immediata, diretta, non filtrata da nessuno, ergo si può benissimo fare a meno dei giornali. Farne a meno? Ma se è proprio la Rete la saccheggiatrice numero uno della stampa scritta. Lei per prima non ne potrebbe fare a meno. E poi. L’informazione diretta è l’altra faccia della democrazia diretta, ossia è la parodia di una democrazia liberale, o meglio è l’essenza di una democrazia totalitaria. Le democrazie liberali si fondano sui corpi intermedi, sui filtri istituzionali, sui grumi associativi. Sono le democrazie plebiscitarie a evocare e invocare rapporti diretti tra il Capo e il Popolo.
Lungi da noi il retropensiero di attribuire a Di Maio intenzioni di quest’ultima natura. Il vicepremier è il primo a sapere che la democrazia è un principio non negoziabile e che va salvaguardata senza i minimi tentennamenti. Ma invitiamo Di Maio a rispondere a questa domanda: una democrazia senza giornali sarebbe vera democrazia?