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Elezioni europee, stavolta la posta in gioco è assai più alta

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Elezioni europee, stavolta la posta in gioco è assai più alta

Lunedì 08 Ottobre 2018, 19:23

In concomitanza del varo della manovra economica il rapporto fra Italia ed Europa è sempre stato più dialettico del solito. In molti casi è stato persino conflittuale. Da anni assistiamo, infatti, a fastidiosi e rognosi tira e molla su decimali del rapporto deficit-Pil e sulle modalità di reperimento delle risorse, a scambi di lettere fra Roma e Bruxelles, a moniti dei commissari europei e a risposte più o meno piccate da parte dei rappresentanti del nostro Governo. Analizzando quanto sta avvenendo in queste ore fra l’esecutivo gialloverde e l’Europa, forte è la tentazione di ricorrere alla citazione biblica “nulla di nuovo sotto il sole”, ma a ben vedere questa volta il discorso è diverso. Ed i motivi sono tanti. Proviamo ad affrontarne alcuni.

Il primo motivo è che le prossime non saranno elezioni europee come le altre. La posta in palio a maggio 2019 è molto più alta di quanto si possa immaginare. L’ondata sovranista, sfruttando a proprio vantaggio anche alcune posizioni critiche del fronte moderato, rischia di travolgere gli equilibri già molto precari del Vecchio Continente. Ciò è talmente vero che si è persino diffusa il convincimento dell’imminente crollo dell’intero sistema. Il problema non è solo il peso che le singole “famiglie” politiche avranno nel Parlamento di Strasburgo, quanto quale Unione europea si staglia all’orizzonte, quale visione strategica essa produrrà, su quale programma fonderà la propria azione futura, quale capacità di sviluppo avrà, anche in ragione della complessità di quei fenomeni che sono determinati dall’intreccio sempre più evidente fra politica, economia e finanza. Il destino dei socialisti e dei popolari, le due forze che attualmente hanno in mano le redini dell’Europa, va ben al di là dei rapporti di forza interni a questi partiti. Assume una valenza molto più ampia e delicata.

Il secondo motivo è che non c’è solo la competizione fra europeisti ed antieuropeisti, ma anche quella interna al fronte sovranista. In Italia è ormai palese la concorrenza fra Movimento Cinque Stelle e Lega nella definizione del modello più idoneo ad intercettare il malcontento di tanti cittadini nei confronti dell’Unione, secondo un approccio politico che relega quest’ultima al ruolo di matrigna acida e cinica, interessata solo agli equilibri di finanza pubblica e non anche alla crescita dei Paesi membri e all’aumento dell’occupazione al loro interno. Le scelte fatte dalla maggioranza in occasione della Nota di aggiornamento al Def da un lato rispondono all’esigenza di realizzare quanto promesso agli elettori alla vigilia dell’appuntamento di marzo (quando la Lega si presentò, però, insieme con gli altri partiti di centrodestra), dall’altro proiettano entrambi i partiti verso la ricerca di un’interlocuzione stabile con i propri elettori. Interlocuzione spendibile a maggior ragione in occasione delle europee sulla base delle decisioni assunte proprio in materia di politica economica. A tal fine, è necessario segnalare il diverso effetto che il contratto di governo ha prodotto finora (sia pur a livello virtuale) su Lega e M5S. Il Carroccio è cresciuto in modo esponenziale tanto da essere accreditato di un 33%, mentre i grillini sono scesi, sebbene di un paio di punti percentuali. È vero che i dati relativi al giudizio sulla manovra (più della metà degli italiani si dice preoccupato per i propri risparmi) e le intenzioni di voto non coincidono, ma è propria questa differenza a spingere Di Maio in direzione di una radicalizzazione dello scontro con l’Europa per difendere con le unghie e con i denti il reddito e la pensione di cittadinanza, diventati ormai un vero e proprio manifesto politico. È nota la natura liquida del voto a favore dei Cinque Stelle per la propensione ad essere orientamento “contro” più che opzione “a favore”, come ha ricordato ieri sulle colonne di questo giornale Giuseppe De Tomaso. Così come è nota la capacità di Salvini di muoversi con abilità in un mercato elettorale assai eterogeno poiché costituito da simpatizzanti di destra, di centrodestra, da grillini, da astensionisti e persino da supporter di centrosinistra delusi dal Pd, specie al Nord. Non trascurabili, oltretutto, sono le differenze fra la strategia di Salvini e quella di Di Maio. Se il primo può contare sul gioco di sponda con diversi leader politici sovranisti (da Marine Le Pen, che il Capitano incontrerà oggi a Roma, ad Orban, passando per esponenti polacchi ed austriaci), il secondo non sembra avere punti di riferimento in Europa con i quali costruire alleanze. Dunque, è possibile, che pur di portare avanti la legislatura e pur di scongiurare il pericolo di elezioni anticipate, il M5S lasci campo libero alla Lega nell’esercizio della funzione di player degli equilibri futuri europei.

Il terzo motivo, sempre in vista della prossima campagna elettorale, si concretizza nella differenza fra Nord e Sud. Interpretare le aspettative dell’elettorato settentrionale significa far leva su elementi come la riduzione della pressione fiscale, la riforma previdenziale e naturalmente la questione sicurezza. Elementi meno divisivi del reddito di cittadinanza e dell’afflato assistenzialista che torna a respirarsi al Sud. Si opera, dunque, su terreni di gioco diversi fra loro, anche se il tone of voice (che ha un suo perché nella comunicazione politica) è praticamente lo stesso.

Il quarto motivo consiste nel fatto che, pur nell’inevitabile polarizzazione fra sovranisti ed europeisti, il fronte di chi contrasta la logica dell’italian first non è certo compatto. Berlusconi e Tajani stanno cercando di contenere il calo di consensi a Forza Italia. Puntano ad evitare la cannibalizzazione del partito da parte della Lega, provando a convincere Salvini a staccare la spina al governo gialloverde ed evidenziando a più riprese il successo che otterrebbe il centrodestra se restasse unito. Il Pd, invece, è alle prese con le divisioni interne e con la questione della leadership, che sembra continuare a pesare più della definizione di una nuova visione politica e più dell’attivazione del processo di rigenerazione identitaria. Se è difficile immaginare, per le ragioni esposte in precedenza, un fronte sovranista unico, ancor di più lo è pensare che una soluzione di questa natura possa avvenire nell’area europeista. Un tentativo lo sta facendo Gentiloni (spalleggiato da Rutelli e da Riccardi) ma gli ostacoli, specie all’interno del suo partito, non sono facilmente superabili. Anche perché si ha la sensazione che le mosse dell’establishment europeo contro il governo gialloverde finiscano per rafforzare sempre di più il fronte sovranista. Da Macron a Tsipras, passando per Sant’Egidio: il cantiere della sinistra europea è stato riaperto. Le incognite, però, sono tante. E, oltretutto, ancora non si sa che cosa accadrà fra i popolari.
Francesco Giorgino

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