Tre-quattro anni fa il greco Yanis Varoufakis era la bestia nera della Germania e, in particolare dell’allora ministro dell’economia Wolfang Schauble, per il quale anche Angela Merkel e Mario Draghi erano campioni di buonismo. L’atletico Varoufakis, ministro delle Finanze del governo ellenico, si opponeva come Maciste al pesantissimo piano di risanamento della Grecia voluto da Schauble e successivamente affidato ai commissari della troika (Bce, Fmi e commissione europea). Fosse dipeso da lui, da Varoufakis, la Grecia avrebbe dovuto rifiutare gli aut aut prussiani dei creditori teutonici anche a costo di dire addio all’euro.
Il superiore di Varoufakis, però, ossia il premier greco Alexis Tsipras, non solo non se la sentì di assecondare il suo ministro nella sollevazione anti-germanica e anti-euro, ma consegnò all’Europa proprio la testa di Varoufakis. Il che gli valse (a Tsipras) un bonus, uno sconto, una dilazione degli oneri nel pur micidiale programma per la fuoriuscita dal commissariamento targato troika.
Varoufakis, ci siamo intesi, è la personalità più lontana dagli streotipi europeistici e dall’imperativo dei bilanci pubblici in ordine. L’idea del pareggio di bilancio in Costituzione, ad esempio, procura l’indigestione a un dirigista doc come l’ex ministro greco e così pure lo stop alla monetizzazione del debito che fa parte del credo fondativo dell’Unione Europea.
Eppure, a leggere e rileggere le ultime valutazioni di Varoufakis sulla crisi italiana si rimane assai sorpresi. Pare di trovarsi di fronte, in alcuni punti, a un analista di quelle agenzie di rating che tanto irritano Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Sostiene Varoufakis: «Se fossi un’agenzia di rating avrei detto le stesse cose sull’Italia... Non voglio fare il profeta di disgrazie. Vedo però che l’economia italiana non è sostenibile nella struttura attuale dell’euro e nessuno ha idea di come l’Italia possa essere pienamente integrata nell’Eurozona. Se uscisse, sarebbe la fine dell’euro. Una calamità che porterebbe una divisione fra Nord e Sud e alla stagnazione. Ovvero il terreno ideale per far crescere il fascismo».
Dunque. Varoufakis - ripetiamo Varoufakis, non Tony Blair -, non solo non demonizza i severi controllori del rating, ma ripete chiaro e tondo che al loro posto direbbe le stesse cose sull’Italia. Sempre Varoufakis mette tutti in guardia dalle devastanti conseguenze che la fuga dell’Italia dalla moneta unica determinerebbe sull’euro e sull’eurozona. A suo parere questo strappo, da lui definito una calamità, scatenerebbe una reazione a catena a più step: fine dell’euro, fine dell’unità d’Italia, inizio della stagnazione, ritorno del fascismo.
Varoufakis non aveva bevuto qualche bicchiere di troppo quando ha rilasciato l’intervista di cui sopra. Anzi. Era lucido, lucidissimo.
Il suo ragionamento non fa una piega. È così ineccepibile, e verosimile, che le avvisaglie della spaccatura del Belpaese che, in caso di autodissoluzione dell’euro, diventerebbe quasi automatica, già s’intravvedono, come dimostra il pressing di tre Regioni del Nord (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna) per l’autonomia assoluta (leggi secessione) dallo Stato centrale. Con l’autocombustione dell’euro, questo processo di separazione subirebbe un’accelerazione che manco il grande Eddy Merckx degli anni Settanta.
Già la Lega di Umberto Bossi, agli albori della sua avventura, minacciava la scissione di Roma se i partner europei avessero detto no alla domanda d’ingresso dell’Italia nel club della moneta unica. A giudizio del Carroccio era inconcepibile che proprio l’area più ricca del Vecchio Continente (ossia la Padania) restasse fuori dall’euro. Se all’Italia, da Bruxelles, avessero detto «no, tu no», il Nord - era la linea di Bossi - avrebbe rotto col resto dello Stivale e si sarebbe accasato con le gambe sue nell’Europa monetaria. Poi all’Italia risposerò «sì, potete entrare» e Bossi cambiò musica: abbasso l’euro, abbasso l’Europa.
Con Salvini la Lega cessa di essere una forza politica macroregionale e si trasforma in un partito nazionale, anche se l’offensiva autonomistica del Veneto è oggettivamente una bomba ad orologeria proprio sotto l’architrave unitario del Paese. La deflagrazione dell’euro ridarebbe ancora di più spazio alle lacerazioni separatistiche, con buona pace dell’opera di ricucitura realizzata dai grandi del Risorgimento. Il Nord insisterebbe ancora di più sulla gestione esclusiva delle sue entrate, il Sud rimarrebbe al palo, con altri soldi in meno, e forse in balìa di quei populisti in cerca di una moneta regionale. Insomma, sarebbe un disastro.
Ecco, perché il fattore debito pubblico costituisce di per sé una minaccia e una iattura innanzitutto per il Sud, oltre che per la sovranità dello stesso Stato nazionale. Uno Stato che rischia di rinunciare all’euro è uno Stato che rischia di spaccarsi come una mela. E se l’Italia si spacca come una mela, non è vero che il Mezzogiorno si ritroverebbe nel paradiso terrestre. Semmai precipiterebbe negli inferi. Come ha ben compreso il radicale Varoufakis che tutto è fuorché un euro-entusiasta. E se queste cose le dice lui, figuriamoci cosa dovrebbero dire quelli che sull’Europa la pensano come Alcide De Gasperi (1881-1954).