TARANTO - Mentre Roma sfoglia la margherita, Taranto si colora di rosso. Nel dossier Ilva (quasi) nulla capita mai per caso. E così nel giorno in cui era attesa la proposta migliorativa di ArcerlorMittal ai commissari straordinari, proposta rimasta a quanto pare ancora in un cassetto a causa di qualche consigliori sin troppo innamorato della tattica, ecco che il maltempo ci ha messo del suo, facendo volare le collinette di minerale depositate a poche centinaia di metri dalle abitazioni quartiere Tamburi e ancora sulla coperta delle navi attraccate al molo polisettoriale dopo il viaggio transoceanico, tingendo di rosso strade, case, banchine e forse pure il viso di qualche politico.
Politico che pare ignorare come la prima sentenza per l'imbrattamento delle case dei tarantini risale al 1980 e da allora si sono viste, sentite e lette sul punto solo e soltanto chiacchiere.
Le foto delle nuvole di polveri hanno fatto il giro del web, grondando indignazione da ogni dove: d'altronde non costa nulla, fa figo, serve per regolare i conti con il nemico di turno e anche con la propria identità, divisa dall'eterno dilemma se si possa essere allo stesso momento di lotta e di governo, occupando ogni spazio utile, possibile e immaginabile.
Ma ora è il momento di dire basta. Nessuno pensa, e ha mai pensato, che il problema dell'Ilva possa essere risolto con una stretta di mano o una pacca sulla spalla. Giovedì prossimo saranno 6 anni che gli impianti sono sequestrati in quanto ritenuti – da una perizia terza e da allora in attesa di essere confutata – fonte di malattie e morti per operai e cittadini di Taranto. Il decreto di sequestro fu impugnato al tribunale del riesame che lo confermò: i Riva non ricorsero in Cassazione, per ragioni che ancora oggi si faticano a comprendere, rendendo così quel sequestro definitivo, o giudicato cautelare che dir si voglia. Non solo. Dal 26 luglio del 2012 nessuno si è presentato all'autorità giudiziaria di Taranto con una richiesta di dissequestro. E dunque tutto il balletto di questi anni, e le centinaia di milioni di euro spesi per adempiere alle 40 prescrizioni para-grilline (si parva licet: una vale una, ovvero un certiticato vale un intervento di 400 milioni di euro) su 42, come scritto dalla Gazzetta domenica scorsa, è andato in scena senza l'autorizzazione di chi, al termine di quei lavori, deve dare il nulla osta alla restituzione degli impianti.
La copertura dei parchi minerali doveva essere completata nell'ottobre del 2015 ma proroga dopo proroga si è giunti sino a ieri, con Taranto invasa dalle polveri e il cantiere pomposamente inaugurato lo scorso 1 febbraio e lentamente avviatosi, tra ristrettezza di risorse e dubbi sulla reale utilità dell'opera stante le incertezze sul futuro dell'Ilva e sul suo eventuale futuro ancora a carbone.
Avendo avuto la sfortuna di aver letto, anno dopo anno, giorno dopo giorno, le oltre 23mila pagine che compongono il dossier Ilva, non c'è un solo motivo per essere ottimisti perché nel tempo, in tutto questo tempo, la ragione di Stato, anzi di lobby, ha sempre avuto la meglio su ogni altro tipo di considerazione ancorata invece ai freddi dati economici, sanitari e ambientali. Quello che era impensabile ieri (coprire i parchi minerali: nell'Aia del 2011 i Riva lottarono per escludere tale prescrizione, ed ebbero successo), è stato poi reso obbligatorio per legge (il 26 ottobre del 2012 la prima prescrizione della nuova Aia targata Clini prevedeva proprio la copertura dei parchi minerali) e poi prorogato quasi sine die, garantendo perfino l'immunità penale a commissari e acquirenti.
Ora basta, allora. Il governo dica chiaramente cosa ne deve essere dell'Ilva, di chi ci lavora e di Taranto (anche in un altro ordine) e agisca di conseguenza, Mittal o non Mittal. L'incertezza procura solo danni e in riva ai due mari c'è ormai piena consapevolezza che nessuno risarcirà mai nulla.