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Con «Wild Geese» il lascito musicale di Gianni Lenoci

Con «Wild Geese» il lascito musicale di Gianni Lenoci

 
Ugo Sbisà

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Ugo Sbisà

Con «Wild Geese» il lascito musicale di Gianni Lenoci

foto M.Bizzochetti

L'album postumo del pianista monopolitano

Venerdì 30 Ottobre 2020, 11:45

16:50

È inevitabile provare una punta di rabbiosa commozione nell’ascoltare Wild Geese, l’album postumo di Gianni Lenoci che la salentina Dodicilune - con il sostegno di Puglia Sounds - distribuisce da qualche settimana per celebrare il primo anniversario della scomparsa del pianista monopolitano. E se, ovviamente, la commozione è legata al pensiero della sua prematura, inattesa scomparsa a soli 56 anni, a determinare la rabbia è la consapevolezza - appunto accresciuta da questo cd registrato nel 2017 - di quanto egli avesse ancora da dire in termini musicali.

Chi ha avuto modo di conoscere Lenoci negli anni, sa bene quale fosse il suo spessore intellettuale, la sua curiosità che lo spingeva ben oltre l’ambito della musica jazz, alla quale restava però intimamente legato attraverso personaggi e repertori sempre molto singolari. E non c’è dubbio che Wild Geese fotografi in pieno questa sua attitudine, a cominciare dalla scelta di concentrare quasi per intero la scaletta non su brani originali - come troppo spesso accade con altri musicisti -, ma sulle composizioni di due soli autori non proprio «facili», Carla Bley e Ornette Coleman, con l’unica eccezione di un brano, Moor, che reca invece la firma del contrabbassista Gary Peacock.

Compagni d’avventura di questa incisione sono innanzitutto il contrabbassista Pasquale Gadaleta, storico partner di Lenoci e il noto batterista statunitense Ra Kalam Bob Moses, la cui presenza assume un significato non secondario, specie alla luce dei suoi trascorsi - peraltro non sempre pacifici - con la Bley.
E diciamo subito che, così strutturato il cd ha come due volti, passando dalle atmosfere sospese tipiche di molti brani della Bley, alla più destrutturata libertà creativa che emerge invece dall’universo colemaniano, del quale vengono ovviamente fatti salvi, sia pure come frammenti materici, i temi ludici e danzanti cari al sassofonista texano.

I titoli scelti per Carla Bley sono And Now the Queen, Vashkar, Olhos de Gato e Ida Lupino, nei quali non è difficile cogliere la vena di ridondante minimalismo tipica della compositrice. Di Coleman sono invece Job Mob, il magmatico Sleep Talking, il danzante Latin Genetics, ma soprattutto The Beauty Is a Rare Thing, tratto dallo storico album del 1961 This Is Our Music. Si può dire anzi che proprio la scelta di questa composizione - che all’epoca della sua uscita face discutere non poco - offra la migliore chiave di lettura per avvicinarsi al Lenoci jazzista e allo sfrontato disincanto col quale sapeva confrontarsi con i capisaldi dell’avanguardia storica, riuscendo sempre a metterne in luce, se possibile, gli aspetti più fascinosi e al contempo meno evidenti.

Resterebbe da dire del Lenoci pianista, della sua grande padronanza di linguaggio e della sua capacità di vivificare la tradizione per poi passare a plasmare il caos rendendolo persino accettabile, quando non addirittura gradevole. Una caratteristica dei grandi alla quale si adeguano con rara sensibilità anche Gadaleta e Moses, creando un intelligente interplay.
Sarebbe troppo facile e scontato, davanti a una registrazione postuma di questo livello, parlare di testamento musicale. Ma per restare in tema successorio, definirla un «legato» non la porterebbe lontana dal suo significato più profondo: un ricordo indelebile del personaggio e anche un suggerimento artistico per capire non quale strada percorrere, ma come affrontare il cammino.

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