Il viso un po’ butterato, gli occhi persi nel buio, le dita rabdomanti sulla tastiera, Lennie Tristano ascolta il battito dell’aria lì attorno al suo corpo. Sta incidendo una sua composizione inaspettata, sgorgata come rigurgito di sangue.
È morto Charlie Parker, dannazione. Lennie schiaffeggia il pianoforte per dedicargli un Requiem.
All’inizio non sa esattamente dove andare; prende note stentoree; ne escono accordi che scivolano nell’assurdo di una cerimonia solitaria inospitale arruffata irata.
Per un attimo si ferma, cambia strada come se all’improvviso si ricordasse di Debussy; i cromatismi li sospende in una dissonanza che si frantuma come un calice che cade per terra. Poi parte il blues: è ieratico, sacro, magro e allo stesso tempo vorticoso.
La mano destra ripete all’infinito una base scura, quasi più scura delle cecità di Lennie; la mano sinistra argomenta volute, si sposta verso gli acuti con circospezione, torna indietro come se qualcosa l’avesse ferita.
Lennie sprofonda in una solitudine abissale; sparisce lo stesso pianoforte; le dita percuotono direttamente sulla pelle irritata e ferita della memoria.
Bird infilava note a una velocità mai ascoltata prima; il suo be bop sovvertiva le regole del tempo, lo rovesciava, infrangeva la clessidra dell’ascolto.
Lennie se ne stava in un angolo ad ascoltare; e mentre ascoltava faceva la radiografia ai suoni; lui che avrebbe abolito le basi ritmiche per lasciare al pianoforte ogni possibilità, rieseguiva le note spettinate di Bird immergendole in un silenzio gelido.
Per Lennie il ritmo doveva promanare dall’interno; essere un fenomeno quasi invisibile; schiaffi da dare al momento giusto; rieducazione istantanea della tastiera.
È morto Charlie Parker, dannazione.
Lennie gli dedica il suo blues sidereo; scolpisce una lapide nervosa; lascia che solo le note essenziali; le stacca dal pentagramma con gesto regale come se avesse bisogno di bagnarle in un’acqua lustrale.
Nell’essenzialità assoluta risale ai funerali bandistici di New Orleans; ne fa miniatura solitaria e solidale.
È solo nello studio mentre incide il suo disco; la presenza dei tecnici di là dal vetro è abolita dalla massa sonora che viene eretta dalle dita a percussione sulla tastiera; un muro si alza; Lennie diventa invisibile.
Lui che non vede non vuol farsi vedere, cecità a specchio, raddoppiate, fuga di occhi che frugano nel nero più nero, sospensione di ogni sguardo, rarefazione del visibile.
Charlie se n’è andato e io lo inseguo per quattro minuti e cinquantasei secondi.
Potrei suonare all’infinito e forse lo farò, ma sarà necessario che nel disco le mie note siano sfumate; il mio Requiem non può avere una nota finale, un’uscita preordinata.
Lennie pensa con le dita; ricorda; ricostruisce; inventa; scava nella tradizione; torna nel cantuccio maleodorante dell’origine. Lee Konitz lo guarda con il sassofono coltralto appoggiato al tavolino.
È emerso dal nulla.
Aspetta, anche se sa che nel Requiem non c’è posto per lui. Non c’è posto per il suo fiato suonato.
Di fiato non ce ne dev’essere, perché Bird non respira più.
Lee aspetta il prossimo brano, riposati, ipnotizza il tuo sax.
Lennie ha origini italiane e il suo cognome denuncia subito un mood esistenziale.
Nel suo essere Tristano c’è anche la voce di Leopardi che gli dedica l’operetta morale conclusiva. Lennie Tristano e il Tristano di Leopardi sono entrambi malinconici, sconsolati, disperati; entrambi sono sul bordo scivoloso del precipizio; entrambi dialogano con un amico che li sollecita a dire a comporre a percorrere ancora una volta la tastiera del linguaggio.
Siamo alla sfumatura del Requiem. Pochi secondi e precipiteremo nel silenzio.
Lennie alza gli occhi dalla tastiera, pur essendo quasi cieco vede il suo amico Charlie che di spalle prende la direzione di una strada lunghissima e diritta che si perde nell’orizzonte.
È un attimo sospeso.
Un saluto composto con l’arte del paradosso.
Vieni, dice Charlie, girandosi per una frazione di secondo prima di scomparire. Verrò, gli risponde Lennie, percuotendo ancora una volta la tastiera del linguaggio.