A Stromboli il tempo si rintana nei labirinti ctoni della terra; fa comunella con la notte; scende per tornanti ardui e si accompagna alle lampadine degli avventurieri del vulcano.
Scendono anche loro inseguiti da ricordi simili ad attimi fuggenti di fuoco; nella retina hanno impressi gli sbuffi infuocati e densi; cercano con i piedi nerastri la vicinanza del mare; vorrebbero respirare aiutati dall’alito delle onde.
Fu un pomeriggio degli anni Ottanta che si decise di scalare il vulcano.
Alzare gli occhi, guardare in direzione dell’Osservatorio, lasciandosi alle spalle le spiagge di Ficogrande, Punta Lena e Piscità, fu un tutt’uno.
Strombolicchio ci guardava perplesso come a dire: siete sicuri? Eravamo in tenuta da bagno con in più delle scarpe chiuse, almeno quelle.
La luce cadente si spezzava incontrando la cima dell’altura nera; trasmetteva un tremolio all’aria che quasi carezzava gli occhi.
Uno avanti, l’altra dietro i passi si facevano ardui; il sentiero era un serpe che si contorce.
Camminare in salita significa disciplinare il fiato; far scendere nella gola un sorso d’acqua quando senti il raschio della polvere lavica raggrumarsi sulle corde vocali; far di tanto in tanto delle soste non troppo lunghe; riprendere il passo in obliquo.
Salivamo per segmenti zigzaganti; il giù si allontanava alle nostre spalle; i nomi dei luoghi svaporavano; andavamo verso un nulla a forma di nerità addensantesi.
Il silenzio si attaccava alla lingua, attenti entrambi a non perdere di vista la traccia del passi altrui.
Uno di noi due perse la pista; deviò quasi impercettibilmente e fu presto sul fianco ripido dell’altura. Si guardò indietro e chiese soccorso con gli occhi.
L’altro si avvicinava tastando il terreno, prendendo la misura ai piedi, cercando ancoraggio nelle rade sterpaglie capaci di esistere lassù.
La consistenza del passo era messa in dubbio dalla sabbiosità di quella zona.
Bisognava arrivare fino a raggiungere la mano dell’altro e senza strappi riportarne il corpo in salvo, levarlo dal vuoto divorante della sciara, riprendere senza dire una parola la salita.
La luce si era fatta violetta; il buio incombeva. Strombolicchio se ne stava in attesa nel fragore della risacca.
Riprendemmo a salire con la gola che raschiava; quando l’acqua era quasi finita una smilza carovana di persone in discesa ci affiancò regalandoci una bottiglia preziosa e inaspettata.
Eravamo quasi sulla cima, esausti ma felici di potere abbracciare la notte.
Delle piccole trincee ci permisero di fare tana, vicinissimi allo strapiombo interiore dove il tempo si tuffava nello svanire della luce.
Tirammo fuori i nostri sacchi a pelo e c’infilammo nella possibilità di prendere riposo e sonno.
Eravamo solo noi due, nessun’altro.
Il vento si fermava accanto alle trincee risparmandoci.
Mi assopii, ma credo che gli occhi continuassero a guardare il retro delle palpebre.
Finché il sonno fu rigato dal sobbalzo del fuoco, prima lento come borbottio poi fasto di luce nel cielo nero. Rimasi steso con gli occhi socchiusi.
Il fuoco saliva denso e lussureggiante sfrangiandosi presto in lapilli che rotolavano sulla sciara, potevo quasi accompagnarli con il pensiero verso il mare, verso un tuffo suscitatore di fumo e ribollimento.
Il sonno mi riprendeva, richiudevo gli occhi e ancora il sobbalzo si riproduceva, dando vita ai volteggi dell’incandescenza.
Quando venne il mattino il mare nella lontananza del laggiù era come una promessa di una possibile carezza.
Prendemmo a scendere come sciando sulla polvere nera.
Le forme venivano lette dalla luce nascente e sfolgoravano come fossero create all’istante nell’adesso dei nostri sguardi.
Un triangolo rovesciato si delineava dietro alle curve del sentiero.
Il vulcano sapeva salire e farsi montagna, ma sapeva anche scendere e trasformarsi in freccia che indica il mare.
Eravamo due Sisifo con le mani libere, felici di avere il passo leggero, gli occhi prensili, il giorno a squadernarsi sulle spiagge toccate dalla prima luce.
Il mare, il mare ci aspettava per accoglierci nel suo tempo liquido, per dare agio al corpo di distendersi e prendere requie.