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Quella sfida all’Etna in sella a un «Ciao»

 
Silvio Perrella

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Silvio Perrella

Quella sfida all’Etna in sella a un «Ciao»

Era lì, insieme raggiungibile e distantissimo, un molosso di terra impastata con il fuoco Si decise la scalata

Giovedì 10 Novembre 2022, 09:00

Avevo un Ciao, un motorino con i pedali. Vivevo al cospetto dell’Etna. La notte le serpentine di lava s’infilavano negli occhi e sfavillavano nei sogni.

Era lì, insieme raggiungibile e distantissimo, un molosso di terra impastata con il fuoco.

Con un amico si decise la scalata.

Il Ciao andava a miscela, benzina con una percentuale di olio. Lasciava nell’aria un odore acre e insieme dolce. Il serbatoio quel pomeriggio lo riempimmo fermandoci a un distributore trovato lungo la strada.

I paesi facevano a gara a dirci ciao anche loro. Sant’Agata li Battiati, San Giovanni La Punta, Trecastagni, più salivamo e più la nominazione si rarefaceva. I nomi venivano bruciati dallo stupore del vuoto.

Dietro di noi erano scomparsi i segnali conosciuti, i perni ai quali affidarsi per dare ordine all’andare: la piazza con le gabbiette delle scimmie, il giornalaio-tabaccaio interrato nel buio dopo tre scalini, il cinema con il tetto apribile ad accogliere luna e stelle, gli agglomerati di case per inquilini in fuga dalla città.

Facevamo collezione di quote: gran salite a curve e poi pianori invasi dal nerume della lava. Nessuno a dire di quale colata si trattasse.

I nostri occhi scrutavano segmentazioni ardite, frastaglio di molecole ristabilitesi nella durezza compatta dopo il fervore dell’incandescenza, gole sgomentevoli.

Si fece un silenzio sacro.

Se avessimo potuto guardarci dall’esterno saremmo apparsi come due figurine incongrue aggrappate a una parete a scoscendimento nel vuoto tramontante del giorno. Per arrivare sin li avevamo dovuto aggiungere agli sforzi del motorino la spinta dei pedali.

Dove eravamo giunti?

Si poteva scorgere nella distanza rannuvolata il mondo lasciato laggiù, dove i genitori ci aspettavano rosi dall’ansia e dalla rabbia. Un mondo del quale andavamo smemorandoci.

Un fiume di lava incadescente si scavava il percorso; gorgogliava; bruciava; si quietava come un animale selvatico che scopre la possibilità del sonno.

Ogni cosa veniva inghiottita e portata nella discesa. La temperatura arroventava l’aria; il fumo saliva dagli strati precedenti già assestatisi in una forma percepibile ma senza nomi.

Era necessario che fossimo noi a inventare una cartografia dell’istante; a fare di occhi segni da decifrare e da trascrivere sulla carta instabile della mente.

Avevamo lasciato il Ciao sul bordo di una strada dove polvere e polline di fuoco facevano mulinelli. Stavamo attenti a non mettere i piedi nel fuoco; evitavamo che le suole delle scarpe fondessero e c’incendiassero i piedi.

Di fare uscire parole dalla gola era impensabile; quel che pensavamo rimaneva incastrato nella mente; scoppiettava d’ipotesi; si trasformava in un racconto che forse avremmo potuto fare nel tempo quieto di un giorno lontano. Eravamo lontani da tutto, anche da noi stessi.

Le serpentine viste di notte dalla finestra di casa o dal giardino qui erano mare inquieto crepitante denso schiumoso affastellato; le età del mondo si riavvolgevano verso l’origine; le cose stavano riformandosi per la prima volta; bisognava dare forma agli utensili mentali per pensare da capo.

Qualcosa ci richiamò nel mondo già conosciuto.

Risalimmo sul Ciao; lo mettemmo in moto; i piedi sui pedali; di due corpi uno a proteggersi dal freddo che si mischiava al violetto dell’aria.

Ridiscendemmo.

L’aria tornava ad esser respirabile; s’infilava nei polmoni a svegliarne i respiri. Ogni cosa tornava come all’andata, ma sembrava diversa, sollecitata da uno sguardo che prima non avevamo.

Il lungo rettilineo di San Giovanni La Punta salutava il Ciao che riprendeva fiato. L’asfalto era asfalto: liscio, senza buche, una sola superficie senz’agguati.

Il buio ormai avvolgeva i contorni delle cose.

Nei nostri cuori scendeva la quiete.

Le nostre madri ci aspettavano furenti all’angolo della strada di casa. In loro la furia si mescolava al sollievo di rivederci com’eravamo prima di partire.Ci avrebbero levato i capelli di dosso; e insieme sorgevano già carezze nelle loro mani.

L’Etna ci aveva fatto tornare indietro.

Alloggiammo il Ciao nel garage.

La cena aspettava nei piatti.

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Silvio Perrella

La Panchina

Biografia:

La meridiana, detta anche, impropriamente, orologio solare o quadrante solare, è uno strumento di misurazione del tempo basato sul rilevamento della posizione del Sole. Attraverso le parole di Silvio Perrella facciamo un viaggio nel tempo nei luoghi del cuore che profumano di Meridione e Sud.

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