Taranto ti attanaglia tra i mari, fa tue le sue malinconie, è polvere pirica che esplode tra le sinapsi.
Sul Lungomare una doppia fila di alberi dà ombra ai passi e ai disincanti. Fenditure e scalette conducono all’acqua. Qualcuno con le infradito e il costume torna su, si siede sulla panchina, si riveste. Mentre le navi galleggiano sull’orizzonte ti visita l’idea di Istanbul. Taranto è Oriente sminuzzato tra Calabria e Puglia.
Nel suo museo silenziosi gli acrobati si esercitano all’impossibile. Dondolano come orecchini sinuosi; sensualmente fanno patti con il tempo; hanno deciso di sostare all’infinito nelle loro teche. Buttare l’occhio fuori dal MArTA sarebbe dolore dei sensi.
I pescatori si scambiano cassette di pesce; le mettono su un carrello; saranno digerite da stomaci audaci. È probabile che anche i pesci moribondi, se potessero, chiederebbero asilo al museo; implorerebbero vasi torniti dove apparire o mosaici slargati di figure multiple e danzanti.
Una persona senz’età aspetta alla fermata del bus. Trangugia saliva, forse gli serve per mettere le parole a bagnomaria, facendone intruglio meno indigesto. Dice che la sua città non l’ha mai amata. Forse vuol dire che la sua città non l’ha mai amato. Sorseggia l’aria; i suoi polmoni sanno ad istinto quanta ruggine ci sia nell’invisibile tendaggio dell’intorno.
Eppure a tratti ti pare che tutto sia limpido e che il sole folleggi sul mare come un vecchissimo infante inconsapevole.
Il ponte che si leva adesso è immobile; ci passi sopra e ne senti le vibrazioni; pensi ad Ortigia, una Ortigia ammalata, perché Taranto pensa spostandosi di continuo sulla carta geografica.
Passa il bus e senti che va verso la litoranea, dove le spiagge si distendono lunghe e dorate e smemorate.
La città è un chiodo arrugginito piantato nell’affogo dello Jonio. È un chiodo che sfregia; ha subito l’oltraggio di un martello scappato di mano. Chiodo storto; raddrizzarlo è impresa erculea.
Se entri nel viario a sussulto del centro quante interruzioni, quanti muri salgono grigi a intristire le strade.
Eppure i dettagli pullulano, fermentano, straziano la vista con arditezze e geometrie che gareggiano con i reperti mutili del museo.
Pensi alle statue con gli occhi cavi, perdute in cecità sommate nei secoli. Pensi alla figura femminile con diadema che fosforeggia in una sala del MArTA. Ha capelli aranciati, viso bellissimo a tre quarti sul collo lungo e sfrangiato, naso perfetto, orecchie attente. Uno dei due occhi guarda dal proscenio spento dell’orbita; l’altro è stato tumefatto dal chiodo arrugginito del tempo.
Come Nefertiti con quell’occhio cavo e terremotato fa trecce agli attimi; intravede i quark; spinge la vista nel regno del non distinguibile; s’insinua nel terrore della cecità. I suoi danneggiamenti si spingono anche nell’altrove del viso. Sulle labbra vermiglie e perfette il chiodo ha infierito.
Avrà in bocca il terrume del terrore; l’alfabeto fatto a pezzi; e chissà se le rimane saliva per bagnare come la persona alla fermata solitarie e disperse parole.
Anche il mento ha subito violenza. Avrà avuto la fossetta; adesso possiede una cuspide infranta.
Il museo e la città non si parlano. Peccato, perché l’uno avrebbe bisogno dei suggerimenti dell’altra.
Entrambi depositari dello Jonio, dei suoi segreti ondosi, della vasta curva che da qui scende verso Metaponto e sale verso Gallipoli.
I fari glauchi disseminati lungo la costa fanno sintassi di luci a cerchio. Si chiamano, chiamano, avvertono, distinguono, protestano; sono una popolazione di stelle infrante solitarie al cospetto dei flutti.
Taranto fa barlume di sé; è acrobata anch’essa; tramonta nel tramonto che fa faville di ferraglia, laggiù.
Di nuovo la geografia si riavvolge, fa nastro di Möbius.
Laggiù è Marghera e i piedi toccano l’impiantito delle Zattere.
Laggiù è Bagnoli e gli occhi vedono il vuoto siderale dell’inerzia.
Laggiù è Priolo mentre nella fonte Aretusa le paparelle si beccano sul collo.
Tramontando Taranto è nella pienezza di sé, avvolta nelle turbolenze, collezionista di acque reflue, costretta in un tempo trangugiato a bocca asciutta.

Il Marta
Mentre le navi galleggiano sull'orizzonte ti visita l'idea di Istanbul. E pensi alle antiche statue del Museo Archeologico
Giovedì 20 Ottobre 2022, 09:05
Biografia:
La meridiana, detta anche, impropriamente, orologio solare o quadrante solare, è uno strumento di misurazione del tempo basato sul rilevamento della posizione del Sole. Attraverso le parole di Silvio Perrella facciamo un viaggio nel tempo nei luoghi del cuore che profumano di Meridione e Sud.
Silvio Perrella
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