Chi sono questi immigrati che dalle interviste rilasciate, sembrano non conoscere i servizi sanitari della nostra nazione?
Ecco, proviamo ad immaginare di nascere in un paese povero, magari in guerra, dove le differenze socio culturali ed economiche sono molto sentite, donne spesso sotto il controllo di un padre, se non orfane o di un uomo compagno o marito, con una forte esposizione alla violenza fisica e psicologica, senza istruzione, senza mezzi e strumenti per l’autonomia e l’indipendenza, con la fatica di vivere la giornata (per noi e forse per fratelli e sorelle minori), una scarsa fiducia nelle proprie possibilità e una mancata autoefficacia reale e percepita a causa di assenza di esperienze formative e di opportunità. A 24 anni divorziamo, riusciamo a partire, trovando chissà dove i soldi, arriviamo in Italia in attesa di un bambino al quarto mese di gravidanza, chissà in quale alloggio e guadagnando cosa per sopravvivere. Lasciamo nel nostro paese un altro figlio di 4 anni.
Grazie ad un contatto a Bari, riusciamo a trovare un lavoro, forse a nero e sottopagato. Diventiamo badanti di una 97enne. abbiamo probabilmente scarsissima capacità di autodeterminazione sia nella scelta del rapporto sessuale, sia nella conoscenza del ciclo di fertilità del nostro corpo e sia nella cognizione delle possibilità di scelta su come e dove metterlo al mondo. Partoriamo nel bagno della nostra assistita, con teli e condizioni precarie.
Ci togliamo la placenta da sole e portiamo tutto nel cassonetto. Nonostante il desiderio di avere nostro figlio, lo lasciamo in una busta con dei peluche, accanto alla spazzatura. Non abbiamo contatti con la società, non abbiamo nessuno di cui fidarci e su cui fare affidamento, non conosciamo la legge del Paese straniero in cui ci troviamo. Non abbiamo la forza e l’audacia psicologica di chiedere aiuto e di credere di poterlo ottenere. Viviamo spesso nell’ombra, nel silenzio, in spazi esteriori e interiori che abbiamo imparato a farci bastare, per convinzioni sulla nostra inutilità personale e per la paura delle persone con cui ci troviamo. Abbiamo imparato a bastare a noi stessi, a fare tutto da soli, a non creare disagi per possibili ripercussioni per noi e per gli altri. Non possiamo sognare e nemmeno immaginare di stare meglio di così. Non lo meritiamo. Non esistiamo. Il nostro compito è andare avanti con spalle e sguardo basso, che se ci va bene mangiamo e non ci verrà fatto niente di male. Figuriamoci se possiamo assicurare un futuro ad una creatura che dipenderà al cento per cento da noi. No. Non sarebbe possibile, meglio affidarlo alla fortuna, che in ogni caso sarà più clemente di quanto potrei fare io.
Ora rischiamo l’arresto per abbandono di minore.
Un gioco di rispecchiamento empatico, immaginando di essere quella donna georgiana che ha partorito suo figlio vicino al cassonetto dell’immondizia. Non è possibile alcun giudizio morale, purtroppo siamo in presenza di vite spersonalizzate. E noi assistiamo anestetizzati, come si trattasse di gente che non ci appartiene, disumanizzandoli. Queste invece sono le priorità del paese. Le persone, prima che il turismo, l’edilizia, l’economia, l’istruzione. La qualità di vita delle persone e la capacità di favorire la multiculturalità per essere insieme comunità.