TARANTO - «Oggi dopo 9 anni si è concluso il processo per la morte di Ale con tre condanne. Sentenza che evidenzia la responsabilità di Ilva ma che non rende giustizia a un padre che non può più crescere le sue figlie, ad un fratello che non puoi più chiamare per essere aiutato, all’amico con cui non puoi più ridere ascoltando le avventure e le pazzie di quando eravate ragazzini, al compagno di squadra con il quale non puoi più litigare perché per fare gol trattiene la palla tra i piedi per tutta l’azione».
Natalia Luccarelli commenta così la sentenza di primo emessa dal tribunale di Taranto per la morte del marito, Alessandro Morricella il 35enne operaio Ilva investito da una fiammata l’8 giugno 2015 e deceduto pochi giorni dopo per le ferite riportate. Il giudice Federica Furio, al termine del processo di primo grado ha infatti condannato a 6 anni di carcere Ruggiero Cola, ex direttore della fabbrica e a 5 anni i dirigenti Vito Vitale e Salvatore Rizzo. I tre sono stati anche interdetti dai pubblici uffici per 5 anni e dovranno risarcire le parti civili: Cgil Taranto, la Fiom Cgil e Anmil, costituite in giudizio attraverso gli avvocati Claudio Petrone, Massimiliano del Vecchio e Annamaria Tritto. Il giudice ha confermato il sequestro probatorio e condannato anche Ilva in As come responsabile civile: il difensore della società, l'avvocato Angelo Loreto, ha ritenuto la sentenza «ingiusta e non condivisibile perché non in linea con quanto emerso dal processo». Sulla stessa linea anche l'avvocato Corrado Olmo Artale che assiste Rizzo e Vitale, annunciando il ricorso in corte d'appello. Assolto invece per non aver commesso il fatto Massimo Rosini, all'epoca dei fatti direttore generale dell'ex Ilva in amministrazione straordinaria: per lui la procura aveva chiesto una condanna a 6 anni di reclusione. Scagionati anche il capo turno di Morricella, Saverio Campidoglio, e il tecnico del campo di colata Domenico Catucci, perché secondo il giudice il fatto non costituisce reato.
Nel pomeriggio, quando la sentenza ha fatto il giro del web, Natalia ha voluto rompere il silenzio che dura da tempo e alla Gazzetta ha spiegato che è una sentenza che «comunque non rende giustizia ai legami spezzati, dei padri che non tornano, dei mariti che mancano per costruire il futuro e della puzza che rimane per terra a causa della logica del profitto ad ogni costo. Qualsiasi incidente sul lavoro è intollerabile, e anche una sola vittima è un ferita non rimarginabile per la società. Mille morti. Vite coperte da un lenzuolo bianco. Bianco ipocrita - ha concluso la donna - che copre sangue rosso e il nero sporco di una democrazia per pochi».
Per Eugenia Pontassuglia, procuratore della Repubblica di Taranto, la sentenza pronunciata «sia pure nei limiti della sua non definitività e nel rispetto del principio di innocenza, è una importante conferma alla correttezza dell’impianto accusatorio costruito dalla Procura di Taranto nella fase delle indagini e delle importanti attività di acquisizione della prova svolte nel corso di un dibattimento rivelatosi di estrema complessità per via delle numerose questioni di natura tecnica che si è reso necessario affrontare al fine di pervenire alla corretta ricostruzione dei fatti. Si tratta – ha aggiunto il magistrato - di una sentenza che, a distanza di circa 9 anni dai fatti ed entro quei limiti, consente di ricondurre la morte di Alessandro Morricella alle omissioni dolose dei dirigenti dell’impianto di Taranto ed alla mancata adozione da parte di Ilva spa, all’epoca in amministrazione straordinaria, di un adeguato piano organizzativo atto a preservare i lavoratori nello svolgimento dei rischi connessi a particolari attività quale quella che il Morricella stava svolgendo al momento in cui si verificò l’infortunio. Sono state, invece, ritenute, allo stato, infondate le tesi sostenute dalle difese degli imputati condannati in primo grado tese ad attribuire le responsabilità del decesso alla condotta – ha concluso Pontassuglia - degli stessi operai impegnati in quel momento sul piano di colata dell’altoforno 2, tra cui proprio Alessandro Morricella». Un punto sul quale anche Giovanni D’Arcangelo e Francesco Brigati, segretari di Cgil e Fiom di Taranto, le uniche sigle sindacali ad essersi costituite parte civile, «la fiammata sprigionatasi dall’altoforno n. 2 non fu una fatalità. Quel fuoco che uccise l’operaio Alessandro Morricella ha nomi e responsabilità precise che una sentenza del Tribunale Penale di Taranto identifica con estrema precisione, rafforzando il timore che come Cgil e Fiom Taranto continuiamo a denunciare, ovvero quello che possa accadere ancora».