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Bruno Pizzul? «Un narratore dal lessico manzoniano: raccontava il calcio senza eccessi retorici»

 
michele de feudis

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Bruno Pizzul? «Un narratore dal lessico manzoniano: raccontava il calcio senza eccessi retorici»

A descrivere il giornalista sportivo televisivo è Giuseppe Sansonna, scrittore barese, firma di Linus, autore e regista Rai

Giovedì 06 Marzo 2025, 16:14

«Chi era Bruno Pizzul? Un autentico narratore, con un lessico manzoniano. Con il suo pudore ha regalato vocaboli preziosi ad un Paese di calciofili»: Giuseppe Sansonna, scrittore barese, firma di Linus, autore e regista Rai (già autore del cult Zemanlandia), descrive così il giornalista sportivo della Tv di Stato e icona di italianità, nazionalpopolare e allo stesso tempo mai sopra le righe, intervistato nel luglio scorso per il documentario Udine, romanzo alieno che Rai Cultura ripropone oggi alle 19.30 su Rai 5. Nel filmato appare sempre misurato, senza rimpianti per non aver mai «vinto» un Mondiale da telecronista tra il 1986 e il 2002, custode del dolore nazionale nel San Paolo di Napoli, dove l’Italia abdicò ai rigori davanti all’Argentina di Diego Armando Maradona, ponendo fine alle notti magiche e consolandosi con la finalità vinta contro l’Inghilterra nel San Nicola di Bari.

Pizzul rientra nella categoria ideata da Gianpaolo Ormezzano, quella dei «canta-glorie», i giornalisti che diventano parte dell’immaginario sportivo nazionale. Racconta Sansonna, testimone diretto della ricchezza dell’uomo-Pizzul: «Sono stato l’ultimo ad intervistarlo per la Rai. Sono andato a Cormons. All’inizio non la voleva fare, era acciaccato. Quando abbiamo fatto irruzione nella sua casa, è stato di una gentilezza d’altri tempi. I suoi rimpianti? Essere diventato telecronista della Nazionale dopo il 1982, sessere andato via prima del 2006. Ma non mi ha parlato di quello. Aveva altri crucci». Quali? «Non aver continuato a fare il professore. Mi disse che “prendendo i ragazzi giovani” aveva la sensazione di fare qualcosa di utile per la società. L’altro pensiero costante era quello “di pesare sulla tigre, su mia moglie. Sono acciaccato e devo gravare sulla persona che amo”. Un sentimento privo di retorica». La dolcezza che riserva al racconto del fidanzamento con la futura moglie è struggente: «Si erano conosciuti a Cormons in una festa di Carnevale. La sua sintesi: “Io ero uno più da calcio, lei ascoltava Beethoven. Le feci delle avance un po’ volgarotte e lei mi mandò via. Poi ci siamo presi e mai più lasciati”».

Un giorno su tutti: il 3 luglio 1990: «Era la serata della semifinale contro l’Argentina. Fu un mite raccontatore di un indelebile momento di dolore collettivo. Un dettaglio? Ricordavo, con una elefantiasi del ricordo, che avesse congedato tutti con una frase così: “La vita va ancora vissuta, che bella la luna su Castel dell’Ovo”. Gli chiesi se avesse detto questo. Mi rispose con semplicità: “La vita vale comunque sempre la pena di essere vissuta. Usai quelle descrizioni per lenire il dolore della sconfitta”. Ai tempi fu criticato da un ascoltatore (“chi si crede di essere Leopardi?, Abbiamo perso!”). In realtà in diretta si espresse con una formula ancora più mediata: “Va bene, si stenta a trattenere le lacrime ma è pur sempre una partita di calcio”, e sulla panoramica sul Golfo di Partenope disse che Napoli “rimane comunque bellissima”. Qui la memoria ha davvero tinte alla Jorge Luis Borges».

Aveva uno stile unico: «I suoi incisi hanno dato forma all’epica del racconto pallonaio. “Comincia l’avventura in terra di Francia”, disse ai mondiali del 1998. Accarezzava l’animo di chi lo ascoltava, senza retorica, rimanendo all’interno di una sana ironia. “Anche Pecci ha detto la sua”, chiosava mettendo a posto le seconde voci». Ecco, in questo calcio, oggi sarebbe quasi fuori posto con l’esondazione di ex giocatori-commentatori dal lessico oltre il grottesco: «Il barocchismo di Lele Adani? Non lo avrebbe mai accettato. Inventava lui stesso un lessico spiazzante e adeguato alle circostanze, un lessico che si faceva apprezzare per eleganza. Paolo Valenti gli disse: “Hai una voce transoceanica, giusta per una partita internazionale”».

Il calcio è, alla fine, come una sfera trasparente attraverso la quale guardare in fondo all’animo dell’uomo. Per Pizzul era anche «una occasione di incontro umano. È stato contento di essere stato amato, senza vanità. Gli piaceva aver viaggiato e incontrato culture e persone in Italia. Lo definirei un grande umanista dell’ultima religione civile, il calcio. Un narratore asciutto, senza virtuosismi o aggressività o neologismi idioti». Dei calciatori di cui narrava le gesta aveva grande rispetto, come ha ricordato nel documentario Andrea Carnevale (segnò un gol in Italia-Ungheria 4-0, disputata nello Iacovone di Taranto). Ma a volte li bacchettava, con classe: «C’è una finale di Coppa Italia, Samp-Napoli 4-0, due gol di Vialli. Gara maschia. C’è un'azione concitata: arriva Corradini in scivolata su Vialli, e l’attaccante atterra con i tacchetti sulla spalla del difensore. Esce dal campo. Lo stronca: “Esce Vialli, ha giocato benissimo, si è comportato malissimo”. Aveva uno slancio pedagogico, non retorico. Adesso chi si assumerebbe la responsabilità di definire l’etica del calciatore, censurando un top player?». L’ultima battuta: Pizzul ha un erede? «No. Come anche per Luigi Necco, nessuno prenderà il suo posto. Aveva una ricchezza irripetibile. La compostezza tutta friulana è stata il suo trofeo, era il naturale cantore della coppa del mondo, che non ha avuto bisogno di vincere», conclude Sansonna.

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