Chi sale e chi scende. Dalla «B» di Berlusconi alla «Z» di Zingaretti tutti i protagonisti della crisi.
Berlusconi - Dato per «bollito» mille e mille volte, è sempre lì al tavolo che conta. «Il governo dei migliori» è stata l’ultima trovata per distinguersi dal resto della coalizione e suggerire al Quirinale, in anticipo, la fattibilità di una pista «tecnica». Ha aspettato il cadavere di Conte al fiume e ora è rientrato in partita senza passare dalle urne. Doveva essere la vittima sacrificale, lo «spolpato» per eccellenza dall’operazione responsabili e invece è pronto a sedersi al tavolo. Highlander.
Conte - Colpito a morte da quelle trame di Palazzo nelle quali finora si era districato benissimo rimanendo sempre a galla. È sopravvissuto al più disinvolto ed equivoco cambio di scena della storia repubblicana (da presidente del governo populista a presidente di quello europeista), ma non ha schivato la fucilata renziana, complice anche il calo dei consensi che aveva iniziato ad indebolirlo con il perdurare della pandemia. Col senno di poi, la sensazione è che non avrebbe potuto far nulla per evitare lo strappo di Italia viva se non provare a stanare Renzi accontentandolo su tutto. Ha scelto, forse giustamente, di non farlo ma a quel punto il suo destino era segnato. Un po’ ammaccato dalla poco dignitosa ricerca dei responsabili è chiamato ora a pianificare il rilancio. Abbattuto.
Crimi - Qualcuno lo ha definito un leader per caso. O per sbaglio. Di certo non un leader fortunato con tutto quello che è successo in questi mesi. Ha affrontato con fatica l’imbarazzo della caccia ai costruttori e ha fatto il compitino che tutti si aspettavano facesse, cioè difendere Conte fino all’ultimo. E inutilmente. Il Movimento, prima forza in Aula, non ne è uscito benissimo. Quando tu sei la balena ma il gioco lo conduce il pesce rosso c’è qualcosa che non va. Poi ecco il «no» notturno (e coraggioso) a Draghi che anticipa la notte dei lunghi coltelli. Luigi Di Maio già guida la pattuglia dei governisti pronti a sedersi al tavolo con l’ex presidente della Bce. Si annunciano tempi duri. Il problema è sempre lo stesso: l’anima irrisolta del 5 Stelle. In cerca d’autore.
Fico - Esploratore dell’isola che non c’è risale al Colle, per la seconda volta nella sua breve vita politica, con le pive nel sacco. Tutti ne lodano l’alto senso istituzionale e il garbo con cui ha condotto le trattative. Vero, ma questo non cambia il profilo da vittima sacrificale delle mattanze altrui. Fosse stato per lui, ne siamo certi, non si sarebbe mai imbarcato in quest’altra avventura. Non consultato.
Meloni - Il dramma dei sovranisti, durante la pandemia, è stato quello di non individuare una linea chiara. Si sono mossi più che altro a tergicristallo, affermando sostanzialmente l’opposto del Governo. Se Conte apriva, urlavano «chiudi». Se chiudeva, urlavano «apri». Rintracciare un punto fermo era la sfida e lei l’ha trovato nel voto: urne, urne, urne. Fra trasformisti, responsabili, costruttori e normalizzazioni varie, la fermezza ha pagato. E ora Fratelli d’Italia ha nel mirino elettorale persino il Partito democratico. Coerente.
Renzi - Ha precipitato il Paese nella crisi più pazza del mondo e in piena pandemia. Però prima dei giudizi di merito pesano i dati fatto: un signore al 2-3% è riuscito ad abbattere un Governo, disarcionare un premier, paralizzare una nazione, mettere alle corde il Pd, gettare nel panico il M5S e forse far sfaldare il centrodestra. Apparentemente tutto da solo. Un artista del machiavellismo, direbbe qualcuno, ma a patto che Draghi abbia i numeri per governare. Se così sarà avrà fatto, a suo modo, un capolavoro. Se invece Mr Euro dovesse uscire di scena per mancanza di sostegni la strategia renziana si trasformerebbe in un suicidio perfetto a mezzo urne. Genio fin troppo compreso.
Salvini - È stato il frontman del centrodestra durante le consultazioni. Ma come qualcuno ha saggiamente sostenuto, «i conservatori si presentavano uniti per dire cose diverse». Forza Italia voleva e vuole il governissimo, Fratelli d’Italia le urne. Nel mezzo il Matteo lumbard che sostanzialmente ha provato a mediare fra i due. Un ruolo che non gli si addice e che, in linea di massima, è sfiorito in una continua professione di solidità («Siamo uniti, siamo uniti») con poco riscontro nel reale. Anche ora sbanda tra il voto e il dialogo, forse destabilizzato dall’anima governista del partito (leggi Giancarlo Giorgetti). Preso in mezzo.
Zingaretti - Ha forgiato il Pd a propria immagine e somiglianza: basso profilo e pedalare. Un modo di stare al mondo che ha permesso ai dem di galleggiare durante tutta la pandemia lasciando che a prendersi applausi e pomodori in prima fila fossero, di volta in volta, i vari Conte, Renzi, Di Maio. La strategia ha pagato per un po’ nell’emergenza sanitaria, meno durante la crisi. Si è arroccato nella trincea dei contiani - pur non essendo affatto Conte uno dei suoi - e proponendo come unica idea forte quella di un «patto di legislatura» che nessuno sapeva bene cosa fosse. E ora gli tocca ingoiare Draghi. Se la cosa gli piaccia o meno è quasi secondario. La sensazione è che non abbia mai avuto le carte in mano. Incolore.