«Questa è una storia di un ritorno, alla propria terra, al sole, al mare». Sono le parole lette dalla voce fuori campo che suggellano Pino di Walter Fasano, folgorante film in bianco e nero di circa sessanta minuti dedicato a Pino Pascali, disponibile da oggi sui canali web del 38.mo Torino Film Festival (la prima edizione del nuovo direttore Stefano Francia di Celle è infatti interamente online a causa della pandemia). Nato a Bari nel 1935 e morto a Roma in seguito a un incidente in motocicletta nel 1968 mentre le sue opere erano esposte alla Biennale di Venezia, Pascali è stato uno degli artisti più inquieti, immaginifici e vulcanici di una stagione straordinaria (su queste colonne i Lettori hanno imparato ad amarlo grazie agli articoli che nel tempo gli ha dedicato Pietro Marino).
Negli anni Sessanta della Pop Art, dell’Arte Povera, dell’affermarsi del Concettuale o del New Dada e insomma delle neoavanguardie che anticiparono e marcarono il grande fuoco del ’68, Pascali appare sulla scena insieme a Boetti, Schifano, Paolini, Festa, Kounellis, con la sua originalissima vena primitiva e decisamente post-moderna: il riutilizzo degli oggetti, le armi-giocattolo, i Carosello... «Solo io ho le chiavi di questa parata selvaggia», dice. La cifra essenziale che lampeggia in Pino è la fedeltà-infedeltà al genius loci mediterraneo da cui trae ispirazione. Tuttavia, nulla di arcadico, di nostalgico, di pacificato v’è nella sua ricerca, anzi, il sentimento del tempo in Pascali è sempre conflittuale: il passato e il presente si incontrano e si scontrano senza alcuna edulcorazione, si nutrono di suggestioni beffarde, bambinesche e appunto geo-sentimentali. Lo testimoniano i fotogrammi del reportage visuale SKMP2 di Luca Patella (1968) che mostrano la performance marittima in cui Pascali bacia e poi, sorridendo, annega la testa di una statua classica prima di riprendere a nuotare.
«Lasciare una traccia è lasciare una ferita», ascoltiamo in un altro passaggio del film scandito dalle voci multilingue di Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore e Michele Riondino. Una babele nitida o un caos calmo, questa intuizione sonora di Walter Fasano, che evoca l’infanzia e l’adolescenza in quel di Polignano a Mare dove i genitori di Pascali avevano una casa per le vacanze e nel cui cimitero riposa, con gli scorci terragni e le casupole per gli attrezzi dei contadini pugliesi, e le scogliere su cui oggi si aprono le ampie vetrate del Museo Pascali. Ma in Pino echeggiano anche gli anni di studio a Napoli; la vita nella capitale fra l’atelier di via Boccea, dove accumula in cortile i cascami industriali per i suoi geniali bricolage, e le febbrili notti girovaghe o sulla pista da ballo del «Piper»; gli scontri dialettici con gli studenti che a Venezia nel ’68 contestano la Biennale, quando Pascali ribatte che è nella forma espressiva l’autentica dimensione politica di un artista (aveva ragione lui, avremmo scoperto molto dopo).
Il lavoro del cinquantenne Fasano, barese, montatore e sceneggiatore di grande valore (sodale di Luca Guadagnino) oltre che autore, prende le mosse dall’intento di documentare l’acquisizione della celebre opera di Pascali intitolata Cinque bachi da setola e un bozzolo, una serie concentrica di scovoli in nylon che simulano in scala gigante dei bachi da seta striscianti, una meraviglia datata febbraio 1968. L’installazione di proprietà della storica galleria romana «L’attico» di Fabio Sargentini, mentore e amico di Pino, due anni fa è stata acquistata per un milione e mezzo di euro dal Museo di Polignano (una fondazione pubblica-regionale). Lungo il filo del trasferimento dei «Bachi» con gli operai al lavoro, le casse da imballaggio e l’arrivo in Puglia, il regista provvidamente divaga e «si distrae», riuscendo proprio per ciò a mettere a fuoco l’orizzonte di Pascali, le sue radici e lo sguardo meridiano. Pino è un racconto per istantanee dell’anelito luminoso e della vocazione ibrida dello scultore-grafico-performer, da cui Fasano si lascia conquistare. Egli ricorre così al contrappunto lirico e musicale rispetto alle immagini scattate dallo stesso Pascali, al repertorio di Claudio Abate, Elisabetta Catalano e Ugo Mulas, e delle riprese di Pino Musi le cui foto costituiscono il nucleo centrale del film, un po’ come nel leggendario La jetée di Chris Marker (1962), citato nei titoli di coda fra i numi tutelari al pari di Arthur Rimbaud e Alain Resnais. Nello spazio-tempo di Pascali si intravede un ritorno al futuro che equivale più propriamente al «futuro del ritorno» nel Sud: lontano - speriamo - dal rimpianto paralizzante oggi in auge nelle arti e nelle lettere, invece con l’energia e l’ironia che furono di Pino.
Il film è prodotto da «Passo Uno» per Regione Puglia, Fondazione Pino Pascali e Apulia Film Commission che nel 2017 aveva già contribuito a Sull’orlo della gloria. La vita e le opere di Pino Pascali diretto da Maurizio Sciarra con i testi della critica d’arte Anna D’Elia.