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C’era una volta la pagella nella scuola senza pistole

C’era una volta la pagella nella scuola senza pistole

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella

È vero, era un autoritarismo dell’ansia di libertà dei ragazzi, ma a giudicare dall’evoluzione odierna c’è di che avere rimpianti

Domenica 08 Ottobre 2023, 15:35

Molti le conservano ancora tra la paccottiglia delle minuscole devozioni di quell’antiquariato domestico che ingombra i cassetti del comò: un messale, un completo da ricamo, un diario di vita con stiracchiata pansé, due penne stilografiche rinsecchite, negativi misteriosi che nessuno svilupperà, un ricettario per i mostaccioli, la foto dell’amatissima zia Milena in Alto Adige, le pagelle.

Pagella radica l’etimologia nel semplice latino colloquiale: sta per piccola pagina. Piccola è stata anche nel tempo dei moderni, ma capace di enormità, di sanzioni, di lodi, di rabbuffi, di improperi, di incoraggiamenti. Perfino di minuscoli trionfi. Come tutti sanno, e sul vocabolario altri significati non figurano, la pagella era il documento ufficiale che la scuola stendeva per informare il padre «o che ne fa le veci» dei risultati della vita scolastica degli alunni. Tutti l’abbiamo ricevuta, tutti l’abbiamo aspettata con ansia o con trepidazione. In quei numeri, i voti, si condensava efficacemente, anche se troppo sbrigativamente, il giudizio dei professori sulla tua vicenda scolastica. Quei numeri provocavano una piccola cabala di questioni interminabili e di interpretazioni sottili: era un’ermeneutica defatigante delle volontà dei docenti che ubbidiva sofisticamente alla libertà di giudizio, ma, anche alla disciplina dell’ubbidienza. Con l’inchiostro denso della penna elegante del segretario scrivano, le sentenze diventavano inappellabili.

In realtà, la pagella era destinata ai genitori: le due autorità indiscusse, scuola e famiglia, cospiravano a fin di bene per tutelare gli studenti. Il filo rosso diretto della comunicazione si tendeva tra presidi e genitori per mezzo di quell’obbligo di firma che garantiva la presa visione della sentenza trimestrale.

È vero, era un autoritarismo un po’ esoso e asfissiante, a volte sprezzante dell’ansia di libertà dei pargoli e pargoletti, ma, a giudicare dall’evoluzione odierna c’è di che avere rimpianti.

Oggi la pagella dei miei ricordi è sostituita nelle scuole dell’obbligo da un lemmario di tipo generico e notarile, poco eccitante: forse rischia di sparire: da «ottimo» a «insufficiente» passando per un ambiguo «distinto», uno sbadigliante «buono», uno sconsolante «discreto» seguito dal «suff».

Nelle scuole superiori mi dicono sopravviva il voto dall’ 1 al 10 con corollario di accessori di segni di più, di meno, di interrogativi indicanti sospetto di copie, eccetera. Tutto questo, nella sostanza in molte scuole è già archiviato tra le rimembranze del tempo andato nel macero delle riforme ultramoderne che assillano la scuola.

Sarà sostituita la pagella da altro ancora misterioso e inconsulto, stante l’oscurità che si allarga sulle disposizioni ministeriale. L’afflizione delle autorità scolastiche si aggrava per via di quella disposizione che sobbarca i docenti alla scelta autonoma di un modo di sostituire la semplice e tassativa Pagella. La scuola si è arresa: aboliti i voti, si pensò a promozioni a sorteggio, a valutazioni oratorie, alla stesura di giudizi psico-attitudinali complessi e articolati. Roba da fa accapponare la pelle ai padri o a coloro che ne fanno le veci. I professori dovranno rispolverare sussidi di eloquenza per trovare parole adatte a sintetizzare i giudizi e modi onesti per sembrare originali. Oggi il tutto con il computer e i suoi gelidi calcoli inappellabili.

L’esiguità della valutazione semplicemente affidata al voto era, effettivamente anacronistica, ma, anche questa vessazione di costringere gli insegnanti ad elucubrare procedure valutative esaurienti, ognun per sé, mi sembra sciocco e dispersivo. Ricordo, all’avvento del metodo dell’espressione del giudizio necessario a corredare la valutazione per voto a partire dagli anni sessanta, che girava per le scuole un prontuario di giudizi standard prefabbricati, buoni per molte evenienze e per gli alunni tipo. Sembrava la trasformazione sistematica della classe prototipo del libro Cuore in un temario dove gli esausti insegnanti potevano trovare ispirazione per scrivere decine di giudizi sulle scolaresche.

Inoltre, dovevano essere, questi giudizi, capolavori di diplomazia al limite dell’ipocrisia, in maniera da non offendere la sensibilità dai ragazzi e di non incorrere nelle furie dei genitori a corto di esperienze esegetiche e che, ancora rimpiangevano il vecchio, caro voto così tassativo, così chiaro e così facilmente paragonabile. È vero che i numeri consentivano l’applicarsi di una inclinazione tutta italiana, direi purgatoriale, a frantumare le differenze, ad assottigliare gli sfasamenti, ad addolcire le sanzioni o a mitigare le lodi: la tecnica dei segni intermedi del mezzo voto, del più, del meno, dell’odioso meno meno. Io ho visto su di un mio compito in classe di Greco apparire, scritto in rosso dalla spietata matita bicolore, 1--, uno meno meno. Chi sa che cosa voleva dire. Io avevo copiato e se n’erano accorti? Chiesi al professore di matematica se poteva equivalere a zero più più. Mi disse che ero ciuccio. Finalmente una valutazione chiara.

Oggi il ciuccio tornerebbe a scuola con una pistola. Quale voto gli diamo se centra il l’insegnante bersaglio?

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