Domenica 28 Settembre 2025 | 14:10

L’oltraggio alla natura come una bestemmia

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Michele Mirabella

Domenica 28 Settembre 2025, 11:45

«Laudato sì mi’ Signore, per sora acqua, la quale è multo utile et humile et preziosa et casta». Così San Francesco. Non aveva letto Eraclito che avvertiva che non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua, ma il Poverello, sapeva che terra, sole, luna e stelle, acqua e fuoco sono ricchezze erogate dal Padreterno per affievolire la fatica di soggiornare in una valle di lacrime. A lavorare con fatica e a partorire con dolore.

O, più alla Milton, darsi da fare nel mondo dove tutto è relativo, visto che i progenitori avevano perso l’occasione di abitare nel Paradiso dell’Assoluto, dove acquedotti e irrigazioni, fucine e riscaldamenti, lavoro e connesse fatiche, erano superflui. Lì, nell’Eden, quanto a terra, fuoco, aria, acqua, avrebbero potuto scialare. Arrancando nell’«atomo opaco del male» come Pascoli definì il pianeta terra, ci sarebbe toccato fare i conti con fatica, sudori, doglie, tentazioni, relativismi, dubbi teologici e dogmi, chiese e religioni, malattia e morte. Nonché con guerre, tiranni e governi, fatica e sudori, sindaci e assessori, enti e sindacati, tasse, bollette, usura. E acquedotti che l’acqua la distribuiscono ai cittadini come energia e fuoco sono elargiti dai tubi di apposite aziende. Quanto all’aria, laboriosamente ci applichiamo per renderla irrespirabile nella sciocca presunzione di poter fare del pianeta quello che ci pare come se fosse nostro. E, con Spinoza, diciamo che, oltraggiando la natura, si bestemmia Dio. Lo so, l’ho presa alla larga, ma avevo bisogno di riflettere sulle ragioni della penuria d’acqua che affligge il nostro pianeta. E dico subito che a me sembrano tutte, le ragioni, confluire in una metafora paurosa, ma, anche in una specie di avvertimento ultimativo. La notizia della drammatica penuria d’acqua del mitico fiume Gange mi atterrisce e, più modestamente, mi rammenta che la nostra Puglia, sitibonda da sempre, il sempre storico, relativo, ha temuto la sete come un castigo divino.

Il paradosso della lunga Puglia bagnata per centinaia di miglia dal mare che, talora, è costretta a centellinare l’acqua, diventa beffardo contrappasso di un castigo crudele, chi sa per quale peccato, in una terra che vanta una bella città: Taranto che di mari me ha due. Il Gange è vicinissimo.

E allora non dico che debba spuntare Antigone a dar fuoco alle coscienze, ma almeno qualche buon popolo a rimetter le cose a posto e a far tornare sulla città dell’uomo il benevolo sguardo del Signore e l’acqua provvidenziale dalle nubi. Ma le nuvole sono avare dove dovrebbero essere benefiche e, altrove, alluvionali come punizioni.

Perché, Signore, ci metti ancora alla prova, sembra domandare allo «stellato soglio» (Rossini, «Mosè») il tuo popolo stanco e assetato mentre guarda speranzoso non tanto «il cielo stellato sopra di sé», ma il becco bucherellato della sua doccia da cui rischia presto di scendere solo una goccia rugginosa. Non dobbiamo prendercela con il Padreterno, futile blasfemia, o con le nubi ritrose, ma con tutti quelli che sono più a portata di mano e, plausibilmente, più direttamente interessati alla siccità provocata da un folle dirizzone dello sfruttamento della natura: antichi incoscienti amministratori e politici, esosi sfruttatori.

Suggerisco di meditare, in attesa che si riempia la tanica, sul fatto che quelli di oggi sono solo la propaggine più recente di una filiera di responsabilità che comincia un secolo fa e che hanno tollerato gli sprechi immani, hanno ignorato le manutenzioni, hanno trascurato le ricerche, hanno sperperato acqua di altre regioni, hanno industrializzato scioccamente, sventrando uliveti e inquinando il mare per acquietare le demagogie d’ogni provenienza. E hanno, forse, anche rubato. Senza programmazione, senza lungimiranza. Senza dare ascolto, non dico agli ambientalisti e alla loro sacrosanta petulanza, ma, almeno, a San Francesco che pregava per «sora acqua, la quale è multo utile et humile et preziosa et casta». Per ricordare che continuiamo a bruciare il maledetto petrolio, che il clima è devastato, che cementifichiamo il mare, che distruggiamo le coste. Le perdite dalle tubature degli acquedotti non sarebbero lontanamente tollerate se portassero petrolio. La siccità non è un caso locale o sfortuna di una terra. È frutto della stoltezza dell’intero paese. La Puglia e il Gange assetati sono solo un allarme.

All’estate mancheranno ancora le farfalle. La notizia svolazza tetramente sulle cronache, ma non si posa su fiori di sorta. Le farfalle disertano i nostri cieli bassi e i nostri giardini. Un tempo migrarono le lucciole e ci fu chi ne lamentò lo spegnimento improvviso invocando la metafora cupa della dissoluzione delle identità culturale.

Chi sa se Trump e il suo contorno di faccendieri tecnocrati del capitalismo neoisolazionista USA hanno mai visto una farfalla. O una lucciola.

Ho ricordato San Francesco, Milton, Pascoli, Sofocle, Rossini, Kant. Il lettore mi perdonerà la citazione di Trump che mi suggerisce la conclusione più popolare: «L’acqua è poca e la papera non galleggia».

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