Capita che mi si chieda consiglio sul modo per diventare attori. Per lo più si tratta di mamme ansiose che giurano sul talento dei figlioli e smaniano perché siano «introdotti nel mondo della televisione»: una confusione inerziale una vaga speranza, ma, anche, una cieca fiducia nel miracolo occupazionale dello spettacolo, stando dentro il quale si padroneggia il mondo o, per dirla con Longanesi, è sempre meglio che lavorare.
Io disilludo. Traccheggio e faccio il vago: non mi va d’esser drastico come sarebbe doveroso. Che pensino alla salute. Ai giovani che mi chiedono aiuto per «fare gli attori» dedico un trattamento più indulgente: che rinuncino finché sono in tempo. Se insistono, ho per loro un metodo in serbo che misura l’amore per il teatro e per l’arte: chiedo se saprebbero, all’occorrenza, fare una «carrettella» e di quale tipo. I teatranti veri ne conoscono almeno tre.
Una sola volta un tale, in un provino, vagamente accennò un tentativo, fece una «carrettella» classica di primo tipo: era, però, uno stagionato dilettante che lavorava in banca e gli consigliai di non abbandonare lo sportello che, in genere, da più soddisfazioni del botteghino.
Ma che cos’è la «carrettella»? È un vecchio trucco degli attori per enfatizzare le battute, soprattutto quelle d’uscita di scena e si applica trascinando le parole o le movenze per accompagnare la sortita e istigare l’applauso. Ci vuole talento ed esperienza per non farla diventare una «guittata». La «carrettella» più usata consiste nell’ultimare la battuta, nel fare, poi, passi lenti verso la quinta, nel fermarsi improvvisamente come per una finta e nel ripetere con timbro conclusivo le ultime parole e, poi, guadagnare con decisione l’uscita. L’applauso è quasi garantito. In teatro, si sa, niente è sicuro.
Sto per fare una «carrettella», una meta- «carrettella» preventiva in risposta a qualcuno che non si stanca di sparare monologhi per consenzienti o uno di quei discorsi densi, prolissi, autoreferenziali, che fanno la gioia dei filodrammatici. I protagonisti, quelli abili ed esperti scansano queste partacchioneche, in gergo di palcoscenico, si chiamano «tinche». Con questo termine di origine misteriosa si definisce, appunto una parte ingente, ma senza fascino e poco originale.
Mi riferisco all’autocelebrazione di titolari e tenutari di «strutture teatrali» che, giustamente, da par loro, si prodigano in un bilancio apologetico delle proprie compagnie o comitive che siano, per arrivare, ed ecco la carrettella, molto meno giusta, a reclamare ed ottenere per sé e per i propri cari che Comune e Regione, soprattutto, li mantengano in vita. In Puglia, per giunta, lavora il «Consorzio del Teatro Pubblico Pugliese»: fa l’impresario distribuendo nei Comuni pagatori repertori scelti con criteri misteriosi. Se il Consorzio è Pubblico è, mi sembra tautologico, destinato a produrlo, il Teatro, prima che nel distribuire quello fatto da altri soggetti pubblici o privati con altrettanto misteriosi criteri.
Nessuno può proclamare, mettendo le mani avanti, troppo avanti, di aver diritto più di altri all’uso o alla gestione delle strutture pubbliche. Le compagnie private, anche se foraggiate col denaro pubblico (contraddizione grottesca come diceva Eduardo), restino tali, salvo che non si sciolgano per misurarsi, con gli altri della libera comunità regionale, nel progettare un teatro Nazionale di Puglia. Come vuole la legge! Il magnifico, restaurato Teatro Piccinni ne sarebbe la casa ideale. L’amministrazione dice che non ci sono i soldi. Li trovino i soldi. Stanno lì per questo.
Il tema è stagionato e comprende l’idea in me ostinatissima, della fondazione di un Teatro Stabile. Bari, da sempre, ne avrebbe avuto bisogno: l’unica vera struttura seria per garantire civiltà teatrale al territorio e sbocco professionale ai veri talenti che pure la nostra terra sa generare.
Una triste e risaputa storia di localismi e di personalismi rapaci, di miopia politica e arretratezza culturale, d’invidie, di difese d’orticelli magri e insignificanti, di miserie provinciali, di un ritagliarsi posizioni di sopravvivenza macilenta e di potere rionale e di mani avanti, appunto, hanno sempre impedito la nascita di una struttura culturale di rango nazionale ed europeo cui Bari aveva diritto. Ogni tentativo è stato frustrato non solo con la solita quadriglia del trascinare le discussioni in eterno o con il rinvio metodico e le contrapposizioni cavillose al limite della sedizione, ma anche con illeciti veri e propri. Pur di impedire ad altri le occasioni per cui si sentivano inadeguati, i sabotatori di mestiere hanno lavorato sodo e bene.
E pensare che fu proprio un grande Pugliese a ideare e dare fisionomia originale al modello migliore di Teatro Stabile d’Europa: il Piccolo di Milano. Si chiamava Paolo Grassi. È bene ricordarlo ai miei concittadini che si sono distratti fino ad oggi con illusioni, eventi, elargizioni, feste, farine e spiagge. Meditiamo. E nessuno metta le mani avanti, verso alcun teatro. Quando uscii di scena dalla mia città, molti anni fa, mi rimase in gola una battuta. «Apriamo il sipario di un teatro Nazionale a Bari!». Ecco, l’ho detta. Una carrettella classica. La dedico a Egidio Pani che questa storia la sa. L’altro ieri è stato il suo onomastico.