Mercoledì 17 Dicembre 2025 | 00:43

Ma quale uomo! Esistono i popoli

Ma quale uomo! Esistono i popoli

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Ma quale uomo! Esistono i popoli

«Le vicende umane sono scritte esclusivamente dalle collettività»: lo ricorda l’analista geopolitico Dario Fabbri, in libreria con «Il destino dei popoli. Come l’umanità ha fatto la storia e creato il nostro tempo»

Martedì 16 Dicembre 2025, 16:27

17:03

È difficile, per l’occidentale contemporaneo, accettare che l’umanità si esprima solo in «infiniti rivoli», spesso non comunicanti e vicendevolmente ignoti. Una verità dirompente, dimenticata: non esiste l’Uomo, esistono i popoli. Ci aveva illuso del contrario già l’universalismo cristiano, secoli fa, rivolgendosi a un’indistinta massa umana. Un abbaglio poi preso in carico dalla modernità laica, nel buio dei suoi «lumi», e dalla postmodernità liberale, impegnata nella definizione di sé come approdo terminale della storia umana.

Deliri vari, bugie pericolose. «Le vicende umane sono scritte esclusivamente dalle collettività»: lo ricorda, in un libro prezioso, l’analista geopolitico Dario Fabbri, direttore del mensile «Domino» e in libreria con la sua ultima fatica Il destino dei popoli. Come l’umanità ha fatto la storia e creato il nostro tempo (Gribaudo). Fabbri mette i popoli a dialogo con il mito, i protoetimi, la lingua, le religioni. Si discute, in modo fluido, di realtà fluide: storie di popoli che diventano altri popoli che - ancora - diventano altri popoli. Ma sempre perseguendo una «specifica idea di sé», una costruzione culturale, a geometrie variabili, che diventa traiettoria comunitaria. «Ma che male c’è a sognare l’Uomo?» potrebbe chiedersi lo scemo del villaggio globale, perso nel suo conformismo alla Netflix in cui tutto è intercambiabile, manipolabile, niente esiste di per sé, i vichinghi sono neri e la realtà sempre riscritta. C’è molto di male, a dirla tutta, perché pensare che l’uomo sia uno, significa ritenere che tutti gli uomini pensino le stesse cose e, soprattutto,  desiderino le stesse cose. La bella gente d’Occidente «è da secoli persuasa che il resto dei bipedi voglia vivere come noi», appunta Fabbri. Cioè che anelino la democrazia, i diritti umani, l’individualismo, la mano invisibile del mercato. Che siano «popoli economici» come lo siamo noi, unico «ombelico antropologico» del pianeta. E se qualcuno ancora non se ne convince è compito della civiltà della Coca Cola e del BigMac redimere l’ecumene, includendo gli infedeli nell’ordine liberale internazionale. Con le buone o con le cattive.

Eppure, i conti non tornano. Milioni di persone giudicano la democrazia un dispositivo «coloniale» e un’economia accettano perfino di non averla, in cambio di altro. Cosa sognano, allora? «Di informare la propria era, di essere ricordati», di colonizzare per non essere colonizzati. In sintesi: «Puntano alla gloria». Ragionano così i russi e gli iraniani, ad esempio. Popoli storici, non economici. In persiano libertà significa «essere nati in uno specifico popolo». È appartenenza, comunità, identità. Non fare quello che ti pare. La lingua è rivelatrice, così come la religione. Se gli Stati Uniti, l’eterna «casa sulla collina» dei padri pellegrini, sono riusciti a infettare mezzo Sud America con l’azione imperialista delle proprie chiese evangeliche (avventista e pentecostale), il Messico invece ha distillato una spiritualità propria (mexicayotl). Chiara sfida al colonialismo spirituale del grasso vicino.

È sempre «questione di popoli», insomma, mentre noi ci perdiamo nella «romanzata parabola degli individui» credendo che tutto inizi e finisca con Trump, Putin e Xi. Quasi, questi ultimi, non fossero il prodotto delle proprie comunità e della congiuntura storica in cui siamo immersi. Tutto vero. Ma a patto che non scappi la frizione. Per dirne una, miti e riti sono confezionati dalle collettività ma gli archetipi pre-esistono agli uomini che li addomesticano: la Venere romana è diversa dall’Afrodite greca, ma il numen (la nuda forza di attrazione) che precede il nomen (l’individuazione dell’entità) esiste in Natura, che i due popoli lo vogliano o meno. Non tutto nasce dal basso, dal tellurico, dal collettivo. Pensarlo significa sottovalutare il ruolo delle élites transnazionali che, mai come in quest’epoca, conducono i popoli, spesso inconsapevoli, come greggi al macello. O anche degli stessi individui. Mussolini fu un prodotto dell’Italia del suo tempo come Hitler lo fu della Germania umiliata e sconfitta. Ma Marx non aveva nulla a che fare con la Russia di cui, inconsapevolmente, sconvolse la storia. L’idea veniva da fuori, solo l’accettazione da dentro.

La radicalizzazione del concetto, comunque, non sporca l’idea di partenza. Che resta sacrosanta. Sulla scena della Storia si muovono i popoli, con le loro miserie e le loro vertigini. Non l’Uomo che esiste solo nelle fantasie della bella gente d’Occidente. E negli incubi del resto del mondo.

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