In quest’epoca in cui il cinema ha definitivamente smesso di essere una forma d’arte, settima o quel che sia, lo strano centenario sdoppiato de La febbre dell’oro di Charlie Chaplin offre lo spunto per spiegare che i capolavori non sono tali perché una tradizione li ha consacrati, ma perché agiscono nel presente, ammoniscono, rendono potenzialmente migliori le persone, ergo gli spettatori, se non troppo presi da se stessi. Questo primo, straordinario lungometraggio, il primo diretto da Chaplin con il personaggio Charlot trapiantato nel Klondike alla fine del XIX secolo, successivo a La donna di Parigi (1923), è anche un libro indispensabile, curato da Cecilia Cenciarelli (Cineteca di Bologna, 78 pagine, più un doppio dvd allegato, 18 euro) per chiunque voglia conoscerlo dietro le quinte e nel contesto storico-culturale più ampio, comprendente un piccolo gioiello poetico quale quello dedicato da Umberto Saba al personaggio in generale e a quello de La febbre dell’oro in particolare: «Ha quanto è l’oro in America, ha lei,/ha tutto,/Charlot, ogni emigrante che ha fame il tuo sogno/sognò». Da questo stralcio di versi tratti da Charlot nella Febbre dell’oro (1927) il film, sfoltito di ogni apparenza edificante, si rivela ulteriormente tra le righe uno dei più severi atti d’accusa rivolto alla inciviltà umana, imbarbarita dal paleocapitalismo della duplice corsa all’oro e dalla nascita infausta di una nazione in cui non c’è posto per i perdenti, gli ultimi, coloro i quali hanno la fortuna, anche abusiva, di raggiungere la soglia della ricchezza. Chaplin realizza con La febbre dell’oro l’unico titolo in grado nella storia del cinema di affiancare il classico mutilato di Erich von Stroheim, Rapacità, realizzato l’anno precedente sull’argomento: per enormità dell’impresa produttiva, intransigenza morale e ambizione creativa queste due opere irripetibili si equivalgono e non sono paragonabili a nessun’altra.
La comicità, sul fronte de La febbre dell’oro svetta e rende semmai più biechi i risvolti impietosi della vicenda dell’Omino chapliniano, quello Charlot che nella versione sonorizzata dallo stesso autore del 1942 viene chiamato semplicemente Little Fellow; e vanno dal cannibalismo all’opportunismo in amore, dalla fame vera a quella delle materie prime, dalla legge del più forte al crimine individuale e collettivo istituito come principio economico vincente. Le celeberrime scene della danza dei panini inforchettati, della scarpa quale pasto unico (in)sostenibile o della casa in bilico sul precipizio sono i momenti sublimi che si intrecciano ai passaggi surreali dove sogno e realtà partecipano di un’unica visione “malin-comica” e tragica al contempo. La spedizione Donner a metà dell’Ottocento è una pagina di epica capovolta che La febbre dell’oro recepisce e rilancia come terribile opportunità ridanciana allo Steven King e a maggior ragione allo Stanley Kubrick di Shining (1980). Il fondo più nero dell’animo umano, trasformato a livello societario in egoismo minerario, nel film del 1925 sventra simbolicamente la terra e l’animo umano: l’umorismo ne è la profonda forma espressiva, come la denuncia della disumanizzazione lavorativa nella fabbrica fordiana di Tempi moderni (1936) e il “j’accuse” frontale del potere sterminatore nazi-fascista de Il grande dittatore (1940).
Ma ciò che rende ancora più potente la parabola negativa, salvata in extremis dalla fortuna e dai sentimenti cardini dell’autore/protagonista assoluto creato e di volta in volta adattato e disadattato è l’impossibilità di coronare un verosimile progetto sentimentale. Non a caso nell’edizione musicata e commentata dallo stesso regista l’anno dopo l’entrata nella Seconda guerra mondiale degli Stati Uniti, saltano i passaggi in cui Giorgia non soltanto ha puntato infine senza remore sul benestante dongiovanni, anziché sull’Omino poverissimo, ma bacia il primo senza indugi. Per questo Chaplin, donando con il senno di poi, in piena temperie bellica, la propria voce che chiosa le immagini e la musica pronta ad accentuarne la cadenza sinfonica, sceglie di tagliare questi momenti ignobili del personaggio femminile, quindi di espungere anche il parallelo bacio finale con l’Omino, troppo indecente poiché lei di fatto ha comunque baciato l’altro.
L’edizione del 1942 è dunque l’unica titolata, per volontà del cineasta demiurgo, a essere accompagnata dalla nota, commovente partitura. La vera copia muta in realtà, nel rispetto filologico e storico, non dovrebbe avere quella colonna sonora. La terza versione restaurata ex novo è dunque apocrifa, ma va bene ugualmente, meno armoniosa di quella di diciassette anni dopo, sincronizzata alla scomparsa dei cartelli originari che non rientrano più nel minutaggio. Importa, nella sostanza, che egli voglia assolutamente recuperare o almeno salvaguardare laddove possibile la relativa, disinteressata bontà amorosa della donna, che nella poesia di Saba diventa non a caso parte inscindibile de “l’oro in America” e quindi del “sognante/sognato” paradigma culturale di “aver tutto”. L’umanesimo di guerra in quel distruttivo frangente impone uno spirito di relazione più costruttivo.
















