Chissà se Shirley Jackson (1916-1965) avrebbe mai immaginato che Vita tra i selvaggi, scritto nel 1953, sarebbe stato pubblicato in Italia proprio quando tutto il paese si interroga se sia giusto o no vivere lontano dalla società. Come non pensare, leggendo questo titolo, al famoso bosco di cui si parla in questi giorni? La parola selvaggio, difatti, così come l’inglese savage, deriva dal latino silvaticus, ovvero appartenente alla foresta: da lì, il termine passa a indicare colui che segue un ordine naturale. Etimologicamente, selvaggio si oppone a domesticus, oggi diremmo addomesticato. Così, mentre il titolo lascia pensare a un mondo lontano dalla civiltà, le prime righe del romanzo fanno capire subito che si parlerà proprio del suo opposto, ovvero di una casa: «Casa nostra è vecchia, rumorosa e piena zeppa». Chi abita in questa casa avrebbe tutte le carte in regola per essere una famiglia americana esemplare: ci sono un padre, una madre, due figli che presto diventeranno quattro, gatti, libri. E invece no: una famiglia impeccabile non si sarebbe lasciata sfrattare, non sarebbe stata costretta a trasferirsi nel Vermont, dove «c’è di buono che le case te le tirano dietro» (talvolta succede anche in Puglia, Albano docet). E una madre ideale non scalderebbe mai il caffè in padella né si farebbe umiliare dalla frolla: incredibile quanto possa essere perfida quella pasta che non vuole saperne di dorarsi! E poi, al momento di partorire non sarebbe arrivata in ospedale in taxi, tra l’altro con una «magnifica sgommata» (la traduzione è formidabile, da sola vale la lettura). E soprattutto, quando all’accettazione le viene chiesto di indicare la propria occupazione, se fosse stata una donna comme il faut, di fronte all’addetta ben decisa a scrivere «casalinga», non si sarebbe ostinata a ripetere «scrittrice».
A questo punto è chiaro che la protagonista ha davvero molto in comune con l’autrice del romanzo, Shirley Jackson, modello indiscusso della scrittura dell’insolito, del bizzarro e dell’inquietante. Afflitta dai rapporti difficili con la madre, dai tradimenti del marito e da una depressione costante, Jackson non ha avuto una vita serena ed è morta a 48 anni dopo anni difficili segnati da attacchi di panico e crisi nervose. E per attenuare la sofferenza servivano a poco i premi letterari e il riconoscimento. La sua reputazione si fonda soprattutto su romanzi e racconti gotici, come La lotteria, La meridiana, L’incubo di Hill House, Abbiamo sempre vissuto nel castello (tutti pubblicati da Adelphi). E se il genere non è ancora chiaro, basterà ricordare che Stephen King la considerava una maestra. A questo filone, se ne aggiungono altri, come quello del racconto biografico, sorprendentemente ironico, di cui fa parte Vita tra i selvaggi, appena pubblicato da Adelphi nella traduzione di Monica Pareschi.
Viene da chiedersi cos’hanno in comune il gotico e la faccenda della frolla. Poco. E molto. Se esiste un’unità nell’opera di Jackson, come sostengono alcuni studiosi, questa va cercata nella sua abilità di farci mettere in discussione ciò che crediamo di vedere.
Il fantasmagorico che l’ha resa famosa ci spinge a uno sguardo interrogativo sul mondo, così come i bambini che si appendono al pomolo della porta ci spingono a interrogarci sul senso delle regole sociali. Questi bambini «selvaggi» che rimangono incastrati nelle porte girevoli dei centri commerciali fanno vergognare la loro mamma che osserva le famiglie come si deve. Eppure, a guardarli bene, quei selvaggi, liberi dalle convenzioni, ci mostrano quanto sia «artificiosa e complessa la nostra civiltà». Il loro comportamento, per contrasto, svela l’ipocrisia del mondo e l’inutilità di molti affanni. «Mi domando» si chiede a un certo punto la narratrice, «se saremmo felici ridotti alle pure necessità, senza tutte queste cose». E in fondo l’altra mamma, quella che sembra davvero così perfetta da sapere tutto persino delle tazze di caffè, non lo è poi così tanto, visto che quando si va a cena a casa sua può capitare di trovare un ragno nell’insalata.
Questo romanzo che fa ridere di gusto possiede una carica contestataria potentissima degna della scrittrice che negli anni dell’università denunciava la scarsa presenza di studenti di colore nelle università e che oggi ci dice: smettiamola di dire che le bambine che non si lavano non sono femminili! E che le donne non devono dire parolacce! Certo, ci vuole coraggio per essere selvaggi: bisogna accettare il rischio di essere allontanati dalla società, di rimanere isolati (oltre che di sentirsi osservati nei centri commerciali). Eppure, malgrado le resistenze della protagonista, tra selvaggi e addomesticati, alla fine vincono i selvaggi. Così va nel mondo di Jackson e spesso in quello della letteratura, dove il selvaggio è talvolta circondato da un’aura favolosa. Proprio come quel Babbo Natale della banca, che sbuca all’improvviso dal divisorio del settore pignoramenti e promette regali ai bambini come se non ci fosse un domani (in barba alla madre che con lo sguardo lo supplica di moderarsi). Nessuno è selvaggio quanto Babbo Natale!
















