Io so. E oggi ho le prove che Pier Paolo Pasolini sia stato «prima di tutto un poeta», tra quei «tre o quattro» che «nascono in un secolo». No, non è la purezza dei versi a parlare. Pasolini non amava il formalismo alla Carducci, lo viveva come un’ossessione: «Penso a che disgrazia è stata per gli adolescenti della mia età – scriveva il regista in un saggio di Luigi Baldacci - aver dovuto cominciare con l’interessarsi a un poeta così (Carducci, ndr): interesse che poi non si è concluso con l’adolescenza, ma è continuato ancora durante la giovinezza. Quante ore buttate via, quanta energia malamente sprecata, quanta aberrazione, quanta stupidità.»
Io so. E oggi ho le prove che Pasolini, scegliendo con ostinato contrasto la poesia civile, la poesia di denuncia, volesse assestare uno schiaffo in faccia alla terra del lirismo retorico. Perciò ha pagato con la vita la speranza disperata che l’Italia facesse i conti con le sue contraddizioni, definitivamente; che il Paese si scrollasse di dosso le infami etichette di «popolo più analfabeta», di «borghesia più ignorante d’Europa». Lanciando un messaggio così duro, diretto, esplicito, Pasolini optò, non a caso, per un film - La ricotta (1962) – e un interprete d’eccezione: l’attore e regista Orson Welles che anzitempo aveva accusato gli organi di informazione dei perversi effetti derivanti della manipolazione dell’opinione pubblica: La guerra dei mondi, Quarto potere.
Io so. E ho le prove. Con la sua tragica morte il poeta volle «guastare la festa» alla borghesia del boom economico, che stava trasformando il Paese traghettandolo dal paleocapitalismo al neocapitalismo tecnologico e poi tecnocratico, col trionfo della società dei consumi e l’esito nemmeno di un «uomo nuovo», ma di un uomo trasformato in macchina, senza spiragli illuministici, circondato dalla forsennata produzione di beni voluttuari: «La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra» dirà Pasolini a Furio Colombo l’1 novembre del 1975, nell’ultima intervista, poche ore prima di essere assassinato. E quelle «strane macchine» somigliavano ai «giovani» che gli «sputavano in faccia perché fascisti come i loro babbi» anzi «più fascisti dei loro babbi» ricordava Elsa Morante rievocando il suo amico Pier Paolo nei versi di un manoscritto del suo archivio. Quelle «strane macchine» che la notte del due novembre 1975 potrebbero essersi avvicinate all’idroscalo, dove Pasolini era appartato con Pino Pelosi, rimaste senza nome e senza volto: «Colui o coloro o chi fosse che gli correvano dietro, non avevano un volto» e «non sapevano quello che facevano» disse Alberto Moravia nell’orazione funebre dedicata al poeta. Io so e ho le prove che pur restando senza volto, sapevano benissimo l’esatto orrore del gesto.
Io so e oggi ho le prove. Che le contraddizioni, attraverso la figura retorica dell’ossimoro, sono state la linfa della sua poesia, utili a irrompere sulla scena sociale rovesciando il tavolo, infrangendo tabù. Pasolini raccontava ancora a Furio Colombo: «Io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace degli altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi».
Io so. E oggi ho le prove di quanto autenticamente profetiche siano state le parole-sigillo dello scrittore Alberto Moravia pronunciate nell’orazione funebre, battendo i pugni sul leggio, di fronte alla bara dell’amico Pier Paolo. Sì, «abbiamo perduto prima di tutto un poeta» quella notte del 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia. Poeta al quale è stato impedito di innervare la coscienza civile del paese.
«E così, tu adesso hai tagliato la corda» scrisse ancora Elsa Morante. Qualche anno dopo, nel 1981, un altro poeta straordinario, Dario Bellezza, nel libro Morte di Pasolini prospettò l’idea che, a furia di versificare sulla sua fine, tra discese agli inferi e immagini del corpo in disfacimento «sul vecchio litorale», di cui nutrì i suoi versi al cospetto della «luce straziante di quel mare», il «poeta e cittadino dimenticato» avesse addirittura previsto e accolto nel suo seno la morte come «unica uscita di sicurezza».
Fotogrammi tv in bianco e nero, densissime penombre, scale di grigio stile anni di piombo. Il buio accecante di quella notte del 2 novembre 1975 a Ostia, proietta ancora la sua ombra sinistra sull’Italia: «Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale» spiegava ancora Pasolini a Colombo, poche ore prima di andare al macello.
Io so. E oggi ho le prove che la luce smorta di quel livido mattino rischiarava, lattiginosa come un’allucinazione, il «pratone» dell’idroscalo dove giaceva la salma del poeta, come il corpo di un eroe omerico, di un umanissimo Ettore esposto ai «corvi» dopo la furia di un tragico, impari, duello. Il sabba di sangue che gli ha fatto scoppiare il cuore. E ha spezzato la speranza.
Io so e ho le prove che Pasolini, anche quando ormai diceva «non ho più speranze», sperava nel Sud del mondo. Dopo aver sperato nel Sud Italia, scenario preminente del «Vangelo secondo Matteo» - girato in larga parte in Basilicata e Puglia -; protagonista di pagine ispirate, come quelle dedicate a Bari, Taranto. E ad Alberobello. Dove una notte del 1951, una notte in cui non scese nell’inferno dei vivi, volgendo lo sguardo alle stelle, scoprì il loro erotico galleggiare in «un cielo inesistente, puro connettivo di luce sulle prospettive fantastiche del paese». Quel cielo che da Matera a Sana’a rendeva forti gli uomini poveri, della forza rivoluzionaria del passato. Consapevoli che l’unica ricchezza del Sud fosse la bellezza e che c'era ancora tempo per non commettere errori, come l’industrializzazione, per non essere ingoiati dall’omologazione capitalistica; per disegnare un futuro diverso.
















