Lunedì 03 Novembre 2025 | 06:56

Madre, vita. Eros, morte

Madre, vita. Eros, morte

 
Pasquale Bellini

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Pasquale Bellini

Pier Paolo Pasolini e la cronologia di un delitto politico

Pierpaolo Pasolini

Domenica 02 Novembre 2025, 18:52

18:53

Pasolini e le donne. Meglio, la donna: sua madre. Le altre, nelle sue opere o nei suoi film, sono spesso proiezioni, archetipi ancestrali, immaginifiche pulsioni fra vita, morte, eros. Paradigmi di un irrisolto lancinante furore esistenziale. Tipo la Giocasta del film Edipo re (Silvana Mangano nel film del 67) o la Medea nel film del ’70, Maria Callas. Entrambe, Giocasta e Medea, in rapporti non proprio sereni con la figliolanza!

A Susanna Colussi (1891/1981) madre vera, Pierpaolo dedicò versi magnifici e terribili, in quella Supplica a mia madre: “... Per questo devo dirti ciò ch’ è orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./Sei insostituibile. Per questo è dannata/alla solitudine la vita che mi hai data./E non voglio esser solo. Ho infinita fame/d’ amore, dell’amore di corpi senza anima./Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu/sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”. Sembra qui, addirittura, che Pasolini attribuisca alla madre la “colpa” di un erotismo irrisolto, in definitiva della sua omosessualità. In questo rifacendosi, in parte, alla teoria di Freud in proposito, con Edipo e complessità bella.

Del padre, l’ufficiale Carlo Alberto (1892/1958) poco parla il figlio, se non per deprecarne i vizi (alcool, gioco) causa dei travagli di famiglia Pasolini. Curioso poi (P.P.P. a volte vi accenna tra il beffardo e il serio) il collegamento nobiliare (forse) con la stirpe ravennate dei conti Pasolini dall’Onda: del resto tutti quei doppi nomi, Carlo Alberto il padre, lui Pierpaolo, il fratello Guidalberto (il Guido partigiano bianco, fucilato da quelli rossi nell’episodio di Porzûs del ‘45), per non dire di un nonno Argobasto (!) farebbero pensare a residuali ubbie di casta. Risalendo, con ironia, a un medioevo araldico per via di padre, ma soprattutto a una realtà contadina nel Friuli e nella Casarsa della madre, ecco che Pasolini salta a piè pari tutto il mercantilismo, tutto il capitalismo della “moderna” borghesia!

Ma le donne! O meglio i personaggi “mitici” femminili. Con Giocasta inevitabile il discorso edipico, in un Edipo re tutto intriso di richiami autobiografici, dallo stesso Pasolini ammessi. Se Giocasta si giace col figlio, in inconsapevole hybris, è poi Medea a trasporre in metafora l’uccisione dei figli, l’uccisione, in loro, della vita e così dell’ amore. Curioso, siamo nel 1969, l’incontro fra Pasolini e la Callas, in sintonia strana durante le riprese del film in Cappadocia. La Callas (che nel 1959 aveva cantato alla Scala la Medea di Cherubini, regia di Visconti) era reduce dalla fine del rapporto con Onassis, che aveva appena sposato la Jaqueline vedova Kennedy, mentre Pasolini era in ambasce per l’esaurirsi ormai del legame con Ninetto Davoli. Certo si è che Maria Callas credette davvero, forse, alla possibilità di un nuovo inizio sentimentale con Pierpaolo. Si ricredette, certo, ma furono comunque i due legati da un sincero affetto, da una grande amicizia. Dopo il film (anche un anello regalato da Pasolini a Callas, canzoni e baldorie con la troupe) Maria e Pierpaolo fecero poi insieme anche un viaggio in Africa, con Moravia e la Maraini.

Tra slanci e contraddizioni

con il teatro

un rapporto controverso

 

Pasolini e il teatro. Rapporto difficile, tra slanci e contraddizioni. Pasolini già da ragazzo si cimenta con testi teatrali: La sua gloria (in 3 atti, 1938), del ‘44 è I Turcs tal Friùl, in friulano sull’ invasione turca del 1499, La poesia e la gioia (1947) sulle paranoie fasciste paterne, Un pesciolino (1957), poi Vivo e coscienza (1963), ancora Italie magique (1964) cabaret storico scritto per Laura Betti, ancora del ’64 è Nel ’46 su un prete che si spreta. Ma è fra il 1966 e il ‘70, con la stesura delle sue “sei tragedie”, che Pasolini sceglie quello che chiama “teatro di parola” e così si isola superbamente dal corrente teatro italiano di quegli anni.

Erano anni (Convegno di Ivrea nel ‘67) in cui il “nuovo teatro” proponeva il superamento del testo letterario, la sfida della regia, la dimensione gestuale e corporea come chance privilegiata, ecc. Pasolini contrappone la parola, meglio ancora la parola poetica: nei testi di quegli anni Orgia, Affabulazione, poi Pilade, Porcile, Calderon, Bestia da stile ricorre a volte addirittura al verso “martelliano” o falso alessandrino del ‘700, di 14 sillabe, prosastico e un po’ monotono (simile al blank verse di Shakespeare) per distillare trame private e pubbliche, tra rimandi grecissimi e attualità, riferimenti classici e angosce contemporanee.

Un “recitar poetando”, quasi un melodramma, che rimanda a un poetare antico da Racine a Yeats, moderno con echi da Claudel, Ginsberg, Weiss, Müller, per non dire di Ezra Pound e dei suoi Cantos. In una conferenza nel ’69 a Torino (dove ha debuttato, sua anche la regia, Orgia con Laura Betti) Pasolini si scatena contro il teatro italiano, quello di sinistra compreso: «il vecchio teatro commerciale è ributtante.... quello cosiddetto nuovo sperimentale non fa che marcire sul modello del Living... Strelher, Ronconi, Visconti, in loro pura gestualità da rotocalco... quanto all’ex repubblichino Dario Fo non si può immaginare niente di più brutto dei suoi testi». Beh, non le mandava dire Pasolini. Non gli fu perdonato. (p.b)

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