A Pescara si uccide, oltre che mangiare arrosticini, andare in palestra ed esibire forme rassodate e muscolature toniche sulla spiaggia. E l’omicidio del diciassettenne albanese Thomas Christopher Luciani, con accanimento di coltellate, avvenuto nell’ennesimo parco dedicato a Baden Powell, fondatore dei boy scout, riguarda i pugliesi e i meridionali affetti dalla sindrome di Disneyland. Ossia la migrazione edonista verso il capoluogo adriatico non per motivi di lavoro, bensì per la ricerca di un’America di prossimità, fatta di ipermercati, ristoranti dove bisogna prenotare con largo anticipo e l’illusione oleografica di uno scenario trendy. A chi beneficia del posto pubblico o semipubblico basta chiedere il trasferimento. Gli altri servono ai tavoli degli aperitivi cenati, impastano pizze o si inventano le professioni del nulla scaturite dalla globalizzazione, che qui, dopo l’uscita dall’A14, stravolge il paesaggio preappenninico.
Peccato che Pescara non sia soltanto Corso Umberto, che conduce dalla stazione ferroviaria al mare, i viali alberati delle trasversali, le filiali delle griffe, gli onnipresenti negozi di telefonia e il passeggio scandito da discorsi fatui su dove andare in vacanza, con mete sempre più inutilmente esotiche, a cena o al prossimo evento che renderà l’estate una fantasmagoria rivierasca. Nessuno o quasi dei nuovi e aspiranti arrivati da Rancitelli, Fontanelle, Zanni, San Donato, quartieri ghetto che fanno il paio con le suburre delle latitudini più basse. Ma il peggio del delitto che preoccupa l’apparato turistico pescarese sta nel suo contesto. I due presunti assassini appartengono ad ambienti ineccepibili. Viene così a mancare – finalmente – la trita equazione fra disagio sociale, povertà e impennate del crimine. Certo, sullo sfondo più immaginario che reale della città-vetrina, brandeggiano le bande pericolosissimi dei senegalesi, con il monopolio della prostituzione, dei nigeriani, signori dello spaccio, dei rumeni, alcolisti allo sbando dal coltello facile, e soprattutto dei rom, dediti all’usura. Questi, però, sono tratti ricorrenti dell’intera penisola, ormai priva di efficaci garanzie di sicurezza, attraente specie per la sua fama di buonismo, contro la quale metteva in guardia fin dalla metà degli anni Ottanta l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. A Pescara, tuttavia, si aggiunge un altro fattore che dovrebbe interessare la classe politica, cui spetta l’intermediazione con chi è preposto alla tutela dell’ordine pubblico.
L’effimero di un territorio che ha cancellato il radicamento e la tradizione per il miraggio di un made in USA dalle punte parodistiche alimenta una gioventù priva di ogni senso etico, che naviga a vista in un qui e ora senza passato, senza futuro, senza storia. Lo smartphone è l’universo a portata di mano nel quale far convergere violenza, derive comportamentali, sesso deragliato. Grazie a genitori che sorpassano a destra la figliolanza, facendo le file per botulino, silicone e quant’altro, preabbronzandosi nelle spa dietro l’angolo per non arrivare agli stabilimenti (non le fabbriche, ma i lidi, come li chiamano a Pescara) troppo pallidi. Spariti i nomi di persona, la prole viene interpellata con «amore», che vale per tutti e tutte, e fa tanto «liquido». Risultato? Nella classifica annuale pubblicata dal Sole24 Ore la città si trova al 15º posto in Italia, su 106, fra quelle più pericolose, stando al rapporto fra popolazione e reati. A Pescara l’anno scorso risultano 17.171 crimini su circa 120 mila abitanti. Le aree verdi diventano zone a rischio, come il Central Park di New York. Il modello angloamericano quindi arriva anche negli apici negativi. Più che Ignazio Silone, lo scorcio abruzzese evoca la descrizione profetica di Doris Lessing in «Memorie di una sopravvissuta», del 1974: «Le cose non andavano tanto bene, anzi alcune andavano davvero male. Ed erano parecchie ad andare male, a rompersi, a degenerare o a «generare un certo allarme», per dirla con i telegiornali».