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L’etica del viandante per orientarsi in un mondo senza meta

L’etica del viandante per orientarsi in un mondo senza meta

 
Francesco Bellino

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Francesco Bellino

L’etica del viandante per orientarsi in un mondo senza meta

L’uomo postmoderno non ha più alcun punto stabile di riferimento, come regola di vita assume di volta in volta «ciò che sente»

Domenica 19 Maggio 2024, 13:30

Il cambiamento climatico, i violenti conflitti in atto, che hanno raggiunto la cifra di 49 e non risparmiano tanti bambini e vittime innocenti, le migrazioni, la corruzione, la delegittimazione dell’ONU, le vistose disuguaglianze sociali hanno determinato uno spaventoso vuoto etico.È necessario interrogarsi su dove stiamo andando e dove dovremmo dirigerci .

L’uomo postmoderno non ha più alcun punto stabile di riferimento, come regola di vita assume di volta in volta «ciò che sente». La tecnica è diventato un mondo, non è più un mezzo, uno strumento per la realizzazione dei fini decisi dall’uomo, ma è l’accresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a determinare il fine.

Siamo arrivati a un punto assolutamente nuovo, e forse irreversibile, nella storia, dove non ci domandiamo più con Günther Anders «che cosa possiamo fare noi con la tecnica», ma «che cosa la tecnica può fare di noi».

Il nomadismo attuale ha reso l’uomo non un viaggiatore diretto a una meta finale, ma, poiché questa non esiste, un viandante. Ulisse attraverso le sue peripezie era diretto a Itaca, la sua terra d’origine; Abramo cercava la terra promessa. Avevano una meta, uno scopo. Noi oggi non abbiamo più una meta.

Nella nostra società liquida e complessa, come ha osservato Donato Allegretti nel bel libro Cristiani di qualità (San Paolo, 2023), l’uomo di oggi è sempre più vuoto e disorientato, «asssomiglia a un vagabondo (homo vagator), errante e senza meta».

Se non comprendiamo più il mondo da un senso ultimo e la storia non è più inscritta in un fine, l’unica etica possibile, sostiene Umberto Galimberti nella sua recente opera, L’etica del viandante (Feltrinelli, 2023), che è la summa teoretica della sua lunga e profonda attività di ricerca, è quella che si fa carico della pura processualità: senza meta, come il percorso del viandante.

Un viandante, non avendo una meta prestabilita, non si lega saldamente ad alcuna cosa particolare e avrà gli occhi ben aperti su ciò che accade durante il percorso. Deve esserci in lui, annota Nietzsche, «qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà».

Galimberti, che è un acuto osservatore della condizione umana, ci invita a non leggere il nomadismo del viandante come «anarchica erranza», che è invece «la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, e dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro come provvisoria e peritura è la vita».

È la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine. È un’etica che segna «la fine dell’uomo giuridico», perché non si appella al diritto, ma all’esperienza.

Il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza. La diversità diventa il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio, afferma con una forte metafora poetica, «si attorciglieranno come rami secchi di un albero inaridito».

Il viandante cerca il centro «non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel cielo e nella legge morale che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione».

L’etica del viandante è un’etica planetaria, cosmopolita, biocentrica, che pratica la fraternità francescanamente tra tutti gli uomini e la vita in tutte le sue forme. È anche un’etica del trascendimento non in senso escatologico , ma all’interno dell’immanenza, alludendo con Jaspers a «quel di più di essere» custodito nelle profondità più nascoste dell’uomo «che lo spingono a un oltrepassamento dal reale al possibile, consentendogli di sperimentare così la trascendenza nell’immanenza».

Come ha intuito Machado, «camminando si apre il cammino». «non c’è cammino, se non andando avanti».

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