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Né satira né risate: da Riondino a Gennarone è solo l’Italia dei veleni

 
Enzo Verrengia

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Enzo Verrengia

Né satira né risate: da Riondino a Gennarone è solo l’Italia dei veleni

Il rapper Gennarone

Ricorrente un’iconoclastia estrema, proporzionale alle derive di un mondo disgregato e fragile, riflesso nei social, dove si riversa più biliosità che elaborazione di pensiero

Sabato 04 Maggio 2024, 14:30

Michele Riondino posta due immagini di Ignazio La Russa a testa in giù, che rimandano a Piazzale Loreto. Il primo maggio, a Foggia, Gennarone lancia un insulto osceno alla Presidente del Consiglio. Tutti e due si scusano, pur ribadendo la comune avversione ideologica nei confronti delle due alte cariche istituzionali.

Dove finisce il diritto al dissenso politico e comincia l’offesa, peggiorata, nel secondo caso dalla pesante volgarità? Peraltro nella Puglia, la cui tradizione di lotta democratica annovera Giuseppe Di Vittorio, Salvatore Allegato, Carmine Cannelonga e, più indietro, Leone Mucci e Nicola Sacco, giustiziato da innocente insieme a Bartolomeo Vanzetti? Lo spessore dei suddetti, fra l’altro, conferisce al rifiuto dei regimi totalitari e alla rivendicazione dei diritti sociali una nobiltà che travalica ogni appartenenza di schieramento. Nel loro caso, si trattava di uno slancio comune verso la libertà, condiviso e raccolto dall’intero arco costituzionale, espressione forse dimenticata fin dagli anni ‘70, quando l’Italia piombò in una sorta di guerra civile non dichiarata che si ha l’impressione di veder riacutizzarsi periodicamente. Il problema dell’insulto agli avversari, insomma, è più grande delle contingenze.

Tornano in mente le sortite del controverso periodico francese Charlie Hebdo, che più volte ha colpito senza fare prigionieri. Che sia Maometto, il terremoto di Amatrice o la slavina di Farindola, la sua redazione continua a darsi l’obiettivo di suscitare ilarità, ottenendo l’opposto, l’indignazione. Una pratica consolidata del settimanale, nato nel 1970 dalle ceneri di un predecessore soppresso dalla censura. Si chiamava L’hebdo hara-ki e fu chiuso dal Ministro degli Interni per un titolo irriverente sull’incendio di una discoteca a Colombay, luogo in cui risiedeva De Gaulle, appena defunto. Anche allora, si speculò sulle vittime del disastro, che furono 146. Sul giornale, sarcasticamente, si parlò di un solo morto, alludendo al Generale.

Questo riporta a un meccanismo intrinseco della specie umana, il riso, che la distingue dalle altre. Aristotele dedicò all’umorismo un intero volume, perduto e ritrovato nella finzione letteraria che Umberto Eco costruisce con Il nome della rosa. Qui, allo stesso modo degli odierni fondamentalisti, un monaco del medioevo, Jorge da Burgos, uccide quelli venuti a contatto con il libro proibito avvelenandone le pagine da sfogliare. Lo Stagirita tornò sull’argomento anche con brani della Poetica, dove raccomanda di esercitare l’«eutrapelia», la virtù del buon umore. Si tratta di avere rapporti di cordialità con gli altri per una migliore convivenza civile. L’esatto contrario di quanto accade oggi nella contrapposizione fra le parti, nell’avverarsi del motto di un grande scrittore che fu anche maestro di satira, Ennio Flaiano: «Se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più». La globalizzazione e il circuito planetario delle notizie pongono tutti a confronto, con il risultato di acuire intolleranze, ostilità e conflitti, anche sulla brevissima misura del rapporto fra persone.

Il giornale satirico L’Asino, fondato da Guido Podrecca nel 1892, attaccava in termini esilaranti il governo Giolitti. Nella Germania nazista, nemmeno Hitler osò intervenire sul più grande cabarettista satirico dell’epoca, Karl Valentin di Monaco. La sua specialità erano i giochi di parole, dagli effetti devastanti sul linguaggio e sul costume. «Spesso le sue battute mi hanno fatto ridere sinceramente» ammise il Führer nel 1937. Valentin replicò: «E invece i suoi discorsi non mi hanno mai fatto ridere, e ora purtroppo me ne devo andare, buon giorno signor Hitler».

Carletto Manzoni sul settimanale Candido pubblicò una vignetta di Einaudi che avanzava davanti a una schiera di bottiglie di vino, anziché di corazzieri. Su ognuna c’era la scritta «Poderi del Senatore Luigi Einaudi». Si alludeva alla possibilità che il Presidente della Repubblica approfittasse della propria carica a fini commerciali. Immediata l’accusa di vilipendio del Capo dello Stato a Giovannino Guareschi, direttore responsabile del Candido, che scontò otto mesi di prigione con la condizionale.

Attualmente, però, ricorre un’iconoclastia estrema, proporzionale alle derive di un mondo disgregato e fragile, riflesso nei social, dove si riversa più biliosità che elaborazione di pensiero, analisi e conoscenza storica. Per quanto riguarda l’Italia, con ironia, Vittorio Zucconi si domandò se al Paese non servisse un gastroenterologo.

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