Con l’uccisione a Torre a Mare di Lello Capriati, si ventila e si teme una nuova guerra di mafia nel territorio barese e anche oltre, visti gli interessi delle fazioni coinvolte che si estendono al di là delle rispettive zone d’interesse, per rifarsi al titolo dell’opera che ha vinto l’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Qui, però, il campo di concentramento diventa quello entro il quale è confinata la comunità civile. Il prevalere della violenza diffusa eclissa rapidamente l’habeas corpus, come accade nel romanzo distopico Memorie di una sopravvissuta, di Doris Lessing.
Ma viene da chiedersi se quello attuale non sia altro che il proseguimento di una situazione pressoché endemica fin dai primi Anni ‘90, ricostruita mirabilmente da Gianrico Carofiglio in L’estate fredda.
Il sangue costituisce l’elemento principale del linguaggio con cui «dialogano» le cosche della criminalità organizzata. Tanto che Giovanni Falcone, a suo tempo, dichiarò in un intervista televisiva che l’apparente quiete di un certo periodo a Palermo, Catania e altri luoghi infestati da Cosa Nostra andava interpretata non quale segno di pacificazione, bensì di attività delle varie famiglie rivali, momentaneamente stabilizzate ciascuna nel proprio giro di atroce illegalità.
Purtroppo, la letteratura, la televisione e il cinema comportano sempre il rischio di epicizzare i picchi più estremi della deriva criminale, quando non ricavarne una mitologia del male, dalla nefasta influenza soprattutto sulle fasce giovanili, sempre più soggiogate dai modelli negativi di cui abbondano i media. In proposito, Andrea Camilleri affermò che occuparsi di mafia era compito della magistratura e delle forze dell’ordine, e nelle storie di Montalbano i rivali Cuffaro e Sinagra hanno poco più di un ruolo folcloristico di sfondo.
Mario Puzo, invece, con la saga del Padrino e derivati, più l’apporto cinematografico di Francis Ford Coppola e la colonna sonora di Nino Rota, diede un contributo determinante alla spettacolarizzazione della mafiosità. Specie quando si seppe che per la scena degli spari contro Vito Corleone la produzione aveva fatto ricorso alla consulenza di sicari professionisti.
Le vicende rappresentate nelle pellicole del ciclo attraversano il dopoguerra e si espandono al presente, mescolando il contesto meramente criminale a quello molto più allargato dei cosiddetti «misteri d’Italia»: Calvi, lo Ior, ecc. Con un’ampiezza di scenari e riferimenti che fanno pensare a una versione noir de La fiera delle vanità, di William Thackeray, se non addirittura alla Saga dei Forsyte, di John Galsworthy, a gran detrimento della lucidità, che dovrebbe far considerare Michael Corleone un villain cui non va concessa alcuna attenuante.
D’altronde, l’invenzione narrativa e sempre scevra dai giudizi morali, e per questo ancora più efficace. Gomorra (2006) si presentò sotto forma di reportage. Pure, Roberto Saviano conferì immediatamente alla sua indagine nell’orrore che scaturiva dal casalese un andamento ritmico della prosa più diretto del giornalismo investigativo. Per questo venne facile due anni dopo trasformare il libro nella sceneggiatura del film che accese i riflettori sul regista Matteo Garrone. E successivamente una serie televisiva che prosegue per sette stagioni e suscitò preoccupate considerazioni sulla forte presa avuta fra gli spettatori più giovani. Senza contare il caso di attori arrestati per contiguità alla camorra vera, che seguitava a fare morti ammazzati fuori dal set.
Per fortuna agli inizi del Novecento si ebbe un trend di tipo opposto. La repressione del crimine giunto negli Stati Uniti al seguito dell’immigrazione italiana, condotta con forte dedizione da Joe Petrosino, fu fonte di libri, fumetti e film nei quali la figura del poliziotto originario della provincia di Salerno acquisiva doti eroiche, peraltro meritate in rapporto alle sue imprese reali.Altrettanto positivo in Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia, è il capitano Bellodi, parmense ispirato al giovane Dalla Chiesa, distaccato nella Sicilia degli anni ‘50. Fu interpretato dal suo conterraneo Franco Nero, figlio di genitori pugliesi, di San Severo, nel film del 1968 tratto dal libro e diretto da Damiano Damiani.
A questo si devono aggiungere le numerose pellicole di denuncia sociale che negli Anni ‘70 nobilitarono il cinema italiano e sensibilizzarono il pubblico al pericolo di una criminalità le cui apparenti guerre interne ne compongono una sola, quella contro lo Stato.