Sabato 06 Settembre 2025 | 17:49

Con la «tassa piatta» danni per il sud e più disuguaglianze

 
Guglielmo Forges Davanzati

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Guglielmo Forges Davanzati

Con la «tassa piatta» danni per il sud e più disuguaglianze

Le economie moderne si sono strutturate intorno a un patto fiscale nel quale, come per la nostra Costituzione, siano i ricchi a contribuire maggiormente al finanziamento della spesa pubblica

Domenica 07 Gennaio 2024, 14:15

15:52

L’impoverimento dei lavoratori italiani, in una dinamica che riguarda quasi tutte le economie dei Paesi OCSE negli ultimi decenni, non attiene solo all’ormai noto dato della riduzione dei salari reali (-2.9% dal 1990), ma anche alla compressione dei salari indiretti (i servizi di Welfare) e differiti (le pensioni). Riveste un ruolo fondamentale - in questa traiettoria - la riduzione del grado di progressività delle imposte, nonché la minore fornitura pubblica di beni e servizi.

Le economie moderne si sono strutturate intorno a un patto fiscale nel quale, come per la nostra Costituzione, siano i ricchi a contribuire maggiormente al finanziamento della spesa pubblica. Il maggiore onere a carico dei più ricchi svolge il fondamentale compito di ridurre le diseguaglianze. Negli ultimi decenni, tuttavia, questo patto è sostanzialmente venuto meno, soprattutto in ragione del progressivo spostamento dell’onere fiscale dai redditi più alti ai redditi più bassi. In sostanza, i lavoratori dipendenti pagano più tasse, ricevono meno servizi rispetto ai decenni scorsi e contribuiscono, in termini relativi, maggiormente al finanziamento della spesa pubblica più di quanto facciano i percettori di redditi elevati. Si pensi, stando a casi recenti, al definanziamento della sanità pubblica in Italia voluto dal Governo Meloni, con uno stanziamento che non copre l’inflazione e che riduce il rapporto fra questa spesa e il Pil.

Lo Stato italiano ha dunque progressivamente smesso di svolgere la fondamentale funzione di ridurre la distanza fra redistribuzione primaria (quella operata dal mercato, prima delle tasse) e secondaria (quella che si ha appunto a seguito dell’imposizione fiscale), in linea con quanto sta accadendo in molti Paesi dell’area OCSE. L’ultimo libro di Thomas Piketty (Capitale e ideologia, 2020) fornisce un’analisi dettagliata e pressoché completa di questi aspetti sul piano storico in un orizzonte di lungo periodo.

Il progetto di introduzione della flat tax, fatto proprio da questo Governo, si muove ulteriormente in questa direzione, con l’applicazione di un’aliquota unica, dunque attenuando la progressività. La tassa piatta riduce il prelievo in modo molto significativo a famiglie molto ricche, determinando un esito per il quale il beneficio cresce al crescere del reddito imponibile.

Si stima, in particolare, che i circa 6 milioni di individui che dichiarano un reddito compreso fra 29 e 50mila euro avrebbero, in media, un beneficio di 2500 euro l’anno, mentre i più ricchi - i circa 2 milioni di contribuenti con reddito superiore a 50mila euro - otterrebbero un risparmio, in termini di minori tasse, di 13.000 euro annui. A beneficiare della riforma fiscale promessa dal Governo Meloni è, dunque, meno del 20% della popolazione, con reddito elevato. È stato calcolato che la flat tax trasferirebbe circa 50 miliardi di euro dalle tasche dei più poveri alle tasche dei più ricchi.

Occorre anche considerare che la gran parte delle famiglie italiane molto ricche ha la propria residenza nelle regioni del Nord e, dunque, la tassa piatta redistribuisce reddito anche a danno del Mezzogiorno. Il reddito pro-capite annuo nel Sud del Paese è, infatti, pari a 16,500 euro, a fronte dei 30.000 e oltre delle famiglie del Nord.

Nel programma economico di Forza Italia, per le elezioni del settembre 2022, era scritto, infatti, che le minori tasse non vanno a beneficio di tutti, ma solo a beneficio solo di «chi crea ricchezza, chi crea lavoro, chi investe», escludendo da queste categorie il lavoro dipendente e includendo, per contro, le imprese e i liberi professionisti.

La motivazione che viene addotta per giustificare la riduzione della progressività delle imposte consiste nel presunto effetto incentivante del lavoro che queste misure produrrebbero. Si tratta della cosiddetta curva di Laffer, ovvero della relazione fra aliquota d’imposta e gettito fiscale proposta dall’economista statunitense Arthur Laffer. La riduzione dell’aliquota di imposta - viene congetturato - incentiva il lavoro. Laffer partì dall’ovvia constatazione che gli individui non lavorano se il loro reddito da lavoro è tassato al 100% e ne derivò l’implicazione per la quale le ore lavorate aumentano al ridursi della tassazione.

La curva di Laffer ha un andamento a campana: quando l’aliquota si riduce, aumentano le ore lavorate, aumenta la produzione, aumentano le entrate dello Stato, fino al raggiungimento del massimo gettito. La teoria economica e l’esperienza storica mostrano che questa teoria è facilmente smentibile, per una duplice ragione. Innanzitutto, l’effetto immaginato da Laffer è operativo solo se applicato a un’economia nella quale è molto significativa la presenza del lavoro autonomo (per il quale è possibile scegliere le ore lavoro). In secondo luogo, la sua attuazione - negli Stati Uniti di inizio anni Ottanta - determinò non già un aumento del gettito fiscale, come nelle attese, ma un aumento del debito pubblico.

Occorre infine notare come lo spostamento progressivo dell’onere fiscale ai danni dei lavoratori dipendenti coincide storicamente con una significativa riduzione del tasso di crescita: non si tratta, dunque, di affrontare la questione solo in termini morali, ma soprattutto in termini di efficienza.

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