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Il salario minimo è un primo passo, non un passo falso

 
Roberto Voza

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Roberto Voza

Il salario minimo è un primo passo, non un passo falso

La riduzione del cuneo fiscale non basti a sconfiggere la povertà salariale. A prescindere dalla entità delle risorse pubbliche che impegna

Sabato 29 Luglio 2023, 14:14

14:18

Appare ormai evidente che la riduzione del cuneo fiscale non basti a sconfiggere la povertà salariale. A prescindere dalla entità delle risorse pubbliche (non certo illimitate) che essa impegna (e, quindi, distoglie da altri impieghi), non si comprende perché essa non possa essere affiancata da altre misure.

Tra queste, anche a seguito della presentazione alla Camera della proposta di legge n. 1275 dello scorso 4 luglio, spicca l’introduzione del salario minimo. Sia chiaro: neppure la sua eventuale approvazione basterà a sconfiggere la povertà. Al di là della povertà di chi un lavoro non ce l’ha affatto, la povertà di chi lavora non dipende solo dal salario orario percepito, ma anche dal numero di ore lavorate. Dunque, la discontinuità occupazionale o l’esiguità del tempo di lavoro incidono sulla complessiva condizione reddituale in misura più rilevante rispetto al dato retributivo. Certo, se il lavoro precario o ad orario ridotto è anche mal pagato, si può dire che piove sul bagnato.

Ma per decidere se approvare o meno una legge (pur da correggere in alcuni passaggi), non c’è bisogno di esaltarla come il rimedio di tutti mali. Né serve teorizzare che si potrebbe fare di meglio, se poi non si fa né l’uno né l’altro. Vediamo, piuttosto, se vi siano argomenti in grado di confutarne l’utilità e/o la legittimità.

La prima obiezione riguarda proprio il ricorso allo strumento legislativo, in quanto l’art. 36 Cost. non affida alla legge il compito di determinare l’importo della giusta retribuzione. Verissimo: ma ciò non rende automaticamente illegittima la fissazione legale di un minimo salariale. Del resto, anche il diritto a ferie annuali retribuite è solo enunciato dallo stesso articolo, ma poi è la legge ad averne quantificato la durata in 4 settimane annue. La soglia legale è, appunto, minima: la contrattazione collettiva può incrementarla e non ridurla.

Si obietta che la materia retributiva è sempre stata affidata alla «autorità salariale» del contratto collettivo, secondo una tradizione risalente alle origini del movimento sindacale.

Ebbene, la proposta in esame non espropria tale funzione: anzi, stabilisce che, proprio in attuazione della norma costituzionale, per giusta retribuzione si deve intendere il trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal CCNL siglato dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale.

La norma intende mettere fuori gioco il fenomeno della contrattazione collettiva «pirata», ossia peggiorativa (non tanto sui minimi tabellari, quanto su altre voci retributive) rispetto a quelli che vengono chiamati i contratti leader.

Qui si leva un’obiezione tecnica: la legge violerebbe l’art. 39 Cost., che prevede un meccanismo di estensione erga omnes dell’efficacia del contratto collettivo, sinora mai attuato, ma tale da impedire il raggiungimento per altre vie dello stesso risultato.

In verità, non si fa che riprodurre quanto sancito in altre singole norme, tra cui quella in materia di soci-lavoratori di cooperative, a cui è obbligatorio ex lege corrispondere un trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Tale previsione è stata ritenuta costituzionalmente legittima, in quanto essa – proprio come quella contenuta nell’attuale proposta – non è una norma sull’erga omnes del contratto collettivo, bensì sulla determinazione legale della giusta retribuzione, mediante rinvio alla contrattazione collettiva, assunta come «parametro esterno di commisurazione». Chi pensa che questa distinzione sia un sofisma, lo deve spiegare alla Corte costituzionale, non ai promotori della legge.

Rispetto alla legge sulle cooperative, che cosa aggiunge l’attuale proposta? La novità di maggior impatto (anche mediatico) è la previsione di una soglia legale invalicabile: i famosi 9 euro lordi come trattamento economico minimo orario.

Si teme una fuga delle imprese dal sistema di relazioni sindacali. Orbene, la legge è chiara nell’escludere che il datore di lavoro possa scegliere di applicare il trattamento legale in alternativa alle disposizioni di miglior favore contenute nei contratti collettivi.

Il paracadute legale è evidentemente pensato per quei settori e quelle qualifiche (prevalentemente nel Terziario e in Agricoltura), ove la frammentazione del sistema produttivo e le condizioni di mercato indeboliscono fortemente la capacità negoziale del sindacato. Secondo il XIX Rapporto INPS 4.578.535 lavoratori (di cui 615.972 domestici, esclusi dall’attuale proposta) guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora.

Ha ragione chi ritiene che sia arrivato il momento di affidare alla legge (non ad indici elaborati in sede giurisprudenziale e amministrativa) la materia della rappresentatività sindacale, in modo da rafforzare i contratti leader. Come è scritto nella relazione, la legge non intende «pregiudicare l’eventuale volontà del Parlamento di dare una soluzione generale al problema dell’efficacia generale dei contratti collettivi». Insomma, il salario minimo è solo un primo passo, ma perché non ammettere che sia un passo utile?

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