Esce nelle sale il film Percoco-Il primo mostro d’Italia per la regia di Pierluigi Ferrandini, prodotto da Altre Storie e RAI Cinema, con il sostegno della Regione Puglia e dell’Apulia Film Commission. Ripropone la storia drammatica dell’omicidio consumato a Bari dal ventiseienne Franco Percoco che, la notte del 27 maggio 1956, accoltellò padre, madre e fratello minore e ne nascose i cadaveri in una stanza dell’abitazione dove continuò a vivere per molti giorni a seguire, apparentemente indifferente all’accaduto.
Un film inquietante quanto la storia che racconta.
Contrariamente al bellissimo romanzo di Marcello Introna (Percoco, per i tipi di Mondadori) cui si ispira, il regista rinuncia a ricostruire le vicende di Franco Percoco precedenti l’omicidio: il film ha inizio che la strage familiare è già avvenuta.
È una scelta cinematografica da cui non solo scaturisce, per restare dall’inizio alla fine, la tensione necessaria a sostenere il ritmo, volutamente lento con cui sono raccontati i giorni susseguenti l’omicidio; ma anche determinante per concentrare l’attenzione intorno al cuore della vicenda e ad aprire subito l’interrogativo: perché?
Si tratta della domanda che si pone impellente non solo per il caso Percoco ma per tanti degli omicidi consumati all’interno della famiglia senza un movente apparente: perché ha ucciso Annamaria Franzoni, perché ha ucciso Erika De Nardo?
Il film, che nulla racconta della vita di Franco Percoco e neppure della sua famiglia, affidando a pochi flashback frammenti del passato, non dà risposta; lascia aperte tutte le opzioni possibili.
Dietro un gesto di inaudito orrore può esserci la follia pura e semplice, o solo la fragilità scaturita da dinamiche familiari per quanto all’apparenza affettuose e accudenti, o le aspettative di un sistema sociale che richiede performance per taluno inarrivabili.
O, forse, il niente. Questa la risposta più agghiacciante, quella che inquieta più di ogni altra perché dice che il «mostro» non è un diverso, non è «altro» da noi. È la banalità del male, quella che mette in crisi ognuno perché nessuno può ritenersene esente.
In questa rinuncia a proporre una soluzione, l’aspetto più interessante e maturo di un film che non è, dunque, una semplice crime story ma una riflessione intorno alla complessità dell’uomo. Ad essa rinvia la splendida recitazione dell’attore protagonista che, volutamente, evoca l’interrogativo di fondo: una maschera costantemente ambigua, spietata e nello stesso momento sofferente di un dolore muto che si manifesta solo nella richiesta finale di aiuto.
Il mistero del gesto resta enfatizzato anche dalla colonna sonora che, a dir poco disturbante, si fa espressione del disagio di Percoco, ne evoca continuamente l’alienazione rispetto al reale, aggiunge all’immobilità dello sguardo una voce che viene dal profondo e che sembra il grido rauco di un animale ferito.
Nella impeccabile ricostruzione di una Bari di metà del ventesimo secolo come degli ambienti interni dove si consuma la tragedia, si trovano sollecitazioni visive intorno alla vicenda che, anche grazie a questo, assume la valenza emblematica del momento storico in cui si svolge.
Mentre si leggono ancora i segni dell’epoca buia del fascismo e della guerra, si avvertono i richiami della rinascita economica, premonitori del nuovo sistema sociale e culturale destinato a soppiantare la prima. E così una regia, sensibile e colta, fa in modo che alle contraddizioni intime di Percoco facciano eco quelle di un’epoca di transizione.
La mentalità piccolo borghese di una famiglia in attesa di riscatto sociale ad opera dell’unico figlio apparentemente «brillante», intrisa dell’ipocrisia che porta a cancellare letteralmente l’esistenza degli altri due perché l’uno in carcere l’altro malato, il perbenismo delle ragazze da marito che vorrebbero i fidanzati in chiesa con loro la domenica, la prostituzione come costume sociale indifferente alla dignità della donna sostituiti dall’etica del consumismo, dalla ricerca del benessere ad ogni costo, della libertà intesa come possibilità di conseguire tutto e subito.
La storia di un crimine feroce nella narrazione di Ferrandini si fa, dunque, anche riflessione più generale sulle dinamiche familiari, sociali, economiche e sull’evoluzione dei costumi nel Paese.
Con ciò il film ha saputo restituire anche quella valenza «traumatica» che il delitto Percoco ebbe nella città di Bari e dare ragione del fatto che, malgrado il succedersi di altre vicende criminali sanguinose ed altrettanto efferate, sia rimasto vivido in tanti il ricordo del «mostro di via Celentano» e dell’eccidio da lui consumato.
Pugliesi il regista (al suo primo lungometraggio dopo una serie di bellissimi documentari), il produttore e buona parte del cast che affianca mirabilmente il protagonista, il film conferma su quali e quante risorse la nostra regione possa contare; talenti da sostenere adeguatamente, eccellenze cui assicurare i mezzi e la visibilità necessaria perché, all’interno di un progetto culturale ambizioso, quale è quello fin qui immaginato e perseguito dalle nostre amministrazioni locali, il cinema pugliese possa essere riconosciuto a livello nazionale ed internazionale ed andare ad accrescere il contributo di qualità di cui è portatore.