«Io credo che la casa di **** non sia mai stata bombardata, mai siano arrivati con i carri armati nel suo giardino…»; L’osservazione amara del presidente Zelensky non è una pesante accusa rivolta solo a Silvio Berlusconi. Nel giorno in cui la premier Giorgia Meloni visita Kiev per ribadire la vicinanza italiana alla causa ucraina, questa frase ha un valore emblematico dirompente, che va al di là dei personalismi e delle schermaglie politiche.
Per capirne la portata, basterebbe sostituire a quello del Cavaliere un qualsiasi altro nome. L’invettiva non risuona per un suo specifico obiettivo. Senza depotenziarsi per l’estensione e richiamo generalisti, serve a scuotere le coscienze in merito all’inarrestabile scia di sangue, scava dentro tutti noi.
A coloro che da un anno a questa parte hanno cavalcato le diverse facce che la guerra osservata genera, dalla distrazione, al disinteresse, all’indifferenza. Un conflitto che, al di là dello sgretolamento di ogni antico equilibrio di geopolitica, costituisce la dimensione nuova della nostra disumanità, la versione 2000 della banalità del male.
Siamo stati distratti, è vero, dalla pandemia e poi, ancora vero, dalla crisi economica e dalle catastrofi per le umane cose di tutti i giorni. Troppo indaffarati a guardarci intorno ancora inebetiti e a tentare e ritentare una ripresa. Più grave della distrazione, poi, è il disinteresse mentre scorriamo i grani del rosario quotidiano. E, ancor peggio, l’indifferenza.
Questa si presenta in gradi diversi: non vedo, non sento… Vedo sento, faccio finta di niente… Vedo sento, mi volto dall’altra parte. È la guerra d’invasione che al momento sta combattendo l’Occidente sulla tranquilla plancia di comando di una poltrona dalla quale ogni giorno possiamo auscultare il dolore del mondo.
Un dolore atroce, naturale come la natura che, silenziosa, scorre e fa il suo corso. Si alternano le stagioni ma le bombe continuano a piovere a grappoli e a seminare distruzione, le famiglie si azzerano e si disperdono, i più fortunati vengono deportati o riescono a fuggire. I numeri contano ma la disperazione è di là da venire ancora.
Vedo sento ma, se mi colpiscono direttamente, rimango inerme? E quali saranno le conseguenze nel breve e medio e lungo termine? Per la sanità mentale, per il benessere, per la convivenza? C’è chi parla già di ricostruzione ma non ha fatto i conti con la distruzione. Ecco allora tutto il sarcasmo della frase di Zelensky, il quale, da ottimo comunicatore, ha voluto in quel nome e personaggio riversare tutta la carica di un sentimento, il senso della fine, insieme alla percezione diretta e fisica di un assedio, di uno sconfinamento esiziale, il carro armato che distrugge il mio giardino.
E non è un caso che si evochi un simbolo storico di invasioni ed eroismi, del vulnus brutale ai luoghi sacri della intimità, strumento di violenza ma, allo stesso tempo, di opposizione al potere. Il carrarmato aveva nel secondo conflitto mondiale ricacciato Hitler e liberato Berlino, irrompe nell’insurrezione ungherese del 1956 a Budapest, ma avanza anche nell’invasione del 1968 di Praga e della Cecoslovacchia.
Zelensky ha dato voce al suo popolo ma soprattutto ai più deboli, donne bambini, popoli privati della libertà o colpiti da guerre… sono loro i principali sconfitti della storia, coloro che non l’hanno ancora scritta e forse non potranno raccontare le loro vicende.
Acquisteranno mai una voce e un diritto a esserci? La portata di un conflitto non si misura solo nella conta delle perdite immediate, delle distruzioni e desertificazioni delle città, ma nel lascito di dolore, inquietudine e pazzia che semina nelle coscienze.