Domani e sabato, nei pressi di Arezzo, su iniziativa della Fondazione Magna Carta, si svolgerà un seminario sul destino dei moderati al tempo dei social media: destino certamente atipico, perché incarna una contraddizione storica. Alla fine del «Secolo breve», dopo l’implosione dell’impero sovietico, era assai diffusa la convinzione che quello che si apriva sarebbe stato il tempo dei moderati. Le ideologie parevano morte e gli incipienti processi di globalizzazione sembravano dover sospingere il conflitto politico verso i territori del pragmatismo e della concretezza. Mai previsione fu più sbagliata. Non soltanto nuove contrapposizioni geopolitiche, a base soprattutto religiosa ed etnica, hanno preso il posto di quelle di matrice ideologica. Anche nei sistemi politici interni, contro ogni pronostico, le posizioni hanno finito col radicalizzarsi e lo scontro col farsi più cruento.
Nella vecchia Europa - e in particolare in Italia - il ruolo dei moderati ha visto mutare i propri connotati: non più protagonisti dei partiti centrali del sistema, ma, allo stesso tempo, decisivi nel determinare lo schieramento che avrebbe infine prevalso. Al centro, insomma, non vi sarebbero stati più i «partiti dei moderati». Tuttavia, l’elettorato moderato sarebbe rimasto arbitro della contesa.
Le cose sono cambiate ulteriormente con l’esplosione dei partiti populisti che hanno complicato e in qualche caso distrutto i sistemi bipolari. Si sono aggiunti, senza collocarsi né a destra né a sinistra. E, così facendo, hanno sottratto agli elettori moderati la propria rendita di posizione: essere ago della bilancia. Giunti a questo punto, se i moderati non vogliono condannarsi all’irrilevanza, la loro riflessione dovrà abbandonare i territori noti per confrontarsi con qualcosa di più profondo ed epocale. Gli uomini politici moderati - non meno dei loro partiti - sono stati egemoni in un tempo nel quale il giudizio del corpo elettorale era meditato e ponderato. Il politico poteva anche assumere scelte impopolari contando sul fatto che il trascorrere del tempo gli desse ragione. Oggi non è più così. Il giorno del giudizio si compie quotidianamente e, per questo, l’uomo politico è portato a rispondere sempre meno alla sua coscienza, assai poco al suo partito, moltissimo a follower e a sondaggi.
Questa dinamica, già di per sé negativa per chi crede nella democrazia rappresentativa, diviene ancora più perniciosa perché si interseca con un altro fenomeno. Accade infatti che le più importanti questioni cui la politica dovrebbe provvedere abbiano spesso un orizzonte temporale ampio: si pensi all’energia, al clima, alla demografia, all’ambiente. A fronte di sfide di questa portata, le carriere politiche sono sempre più frutto del caso. Possono nascere o morire in un nonnulla. Non ci sono più i Fanfani, i La Malfa, i Berlinguer. Oggi persino un importante ministro può non tornare in Parlamento al giro successivo. E questa precarietà porta naturalmente ad anteporre alle questioni di lungo periodo logiche di breve momento.
Va poi considerata la progressiva perdita di rilievo della rappresentanza territoriale. Un tempo i politici moderati erano spesso notabili locali. Oggi, in loro vece, sui territori abbondano i «paracadutati». E gli elettori, soprattutto nelle contese nazionali, avvertono sempre meno l’influenza di uno scambio proficuo tra il loro suffragio e un ipotetico vantaggio per il proprio territorio.
Tutte queste possono considerarsi conseguenze indirette di una società sempre più «connessa». Vi è però anche l’influenza diretta che i meccanismi della «rete» esercitano sul materiale svolgimento della politica. Gli algoritmi che ci indirizzano verso un capo d’abbigliamento, una bibita, una merendina sono infatti gli stessi che possono portarci a scegliere un candidato, un partito, uno schieramento, indipendentemente da una valutazione delle capacità e delle competenze. E così, come un prodotto più è caratterizzato più è appetibile per il mercato, anche un politico più è «radicale» più è veicolabile da un modello algoritmico.
La pervasività dei social media, insomma, sta modificando la fisiologia dei sistemi democratico-rappresentativi. E queste novità senza dubbio complicano l’esercizio di un’influenza e la raccolta del consenso da parte di formazioni e uomini moderati estranei ai populismi. Di fronte a questi cambiamenti epocali, i moderati - di centrodestra così come di centrosinistra - potranno decidere di reagire in diversi modi. Imprecando contro il destino cinico e baro per poi praticare la classica deprecatio temporum. Rassegnandosi a rinunciare al proprio patrimonio genetico, per affidare la loro partecipazione alla vita politica a qualche scelta più o meno trasformista. Oppure, provando ad aggiornare la propria cultura politica per adeguarla al tempo presente e ai suoi fenomeni, anche quando questi appaiono penalizzanti. Chi sceglierà quest’ultima strada è bene che sappia che essa è in salita. Anche se alcuni segnali favorevoli iniziano a scorgersi. In rete, ad esempio, sono sempre più numerosi i giovani e i giovanissimi - under 30 - che approfondiscono biografie e vicende della cosiddetta Prima Repubblica; che rifiutano la logica binaria a favore del pensiero profondo; che rivalutano lo stile e i luoghi della politica tradizionale. Sono solo tenui accenni di un’inversione di tendenza. Ci ricordano, però, che nella politica post-moderna ogni moda è effimera. Anche quella spinta dall’algoritmo.