Biden arriva a Bali rinforzato del recentissimo appuntamento elettorale di verifica. Il leader cinese è in una fase di potere incontrastato e arriva a questo G20 dopo aver attuato profondi cambiamenti nella politica del suo Paese, rivelati, ancor più esplicitamente, dal congresso quinquennale del Partito Comunista. È evidente quanto stia cambiando radicalmente la Cina sotto Xi Jinping rispetto ai suoi predecessori Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao. La sua audacia nell’esercizio del potere è giudicata, dai più importanti analisti internazionali, senza limiti e infatti sta anche infrangendo convenzioni politiche consolidate. Cina e Usa, ben al di là del bene e del male, tornano a essere, da Bali, i due Paesi che guidano le sorti globali, mettendo in secondo piano Putin, il quale, con la sua assenza, si è autorivelato il vero perdente, impantanato nella sua guerra.
Intanto è durato circa tre ore il tanto atteso colloquio di Bali fra Biden e Xi, dove i due hanno parlato con pacatezza, pur trattando temi scottanti: dai rapporti con Mosca alla questione Taiwan. Xi Jinping, che poi, come ormai tradizione, non ha voluto rispondere alle domande della stampa estera, ha comunque ricordato che la Cina e gli Stati Uniti hanno attraversato alti e bassi per oltre cinquant’ anni. La storia è ben nota e, proprio per questo, i principali giornali americani hanno scritto, in tempo reale, che, ad oggi, si dovrebbe prendere la storia come uno specchio molto utile per affrontare il futuro, cercando di migliorare quei fragili rapporti sull’asse Washington – Pechino. La distensione di queste ore allontana, con piacere, gli anni duri della Guerra Fredda, quando le possibilità di colloqui autentici con la Cina sembravano fioche in vista dell’incontro tra Lyndon Johnson, il presidente degli Stati Uniti, e Alexei Kosygin, il premier sovietico, nel 1967. I leader delle superpotenze, in quel momento, non si incontravano dal ‘61, cioè dal vertice Kennedy-Khrushchev, a Vienna, finito in acrimonia. La Cina guardava solo verso la Russia. Negli anni Novanta poi in Cina è avvento un vero cambio di rotta dell’opinione pubblica: dall’elogio dell’amicizia sino- sovietica si è passati al desiderio del «sogno americano», da coniugare (difficilmente) col comunismo. Nel 2001, dopo anni di trattative, si è registrata l’entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Principale sponsor dell’iniziativa fu Bill Clinton.
Alla luce di questi eventi storici, si comprende chiaramente come ieri, in fin dei conti, sia accaduto qualcosa di rilevante, che - per ora - rasserena tutti in particolare, come detto in apertura, sotto l’aspetto di Taiwan e nella condanna all’utilizzo dell’arma nucleare. Tuttavia Xi non ha abbassato la guardia su quella zona, precisando che quella è la linea rossa da non oltrepassare mai. È ben noto che lo status di Taiwan sia un punto controverso, almeno da quando il presidente Nixon intraprese il suo viaggio a Pechino, mezzo secolo fa. I leader del Partito Comunista Cinese (e molti cinesi) credono fermamente che Taiwan sia territorio cinese, strappato dalle mani di Pechino quando le forze nazionaliste sconfitte fuggirono sull’isola dopo la guerra civile.
Secondo la cosiddetta politica della «Cina unica», i successivi presidenti americani hanno affermato di «riconoscere» la pretesa di Pechino su Taiwan, ma non sono arrivati al punto di approvare o accettare tale affermazione e si sono opposti a qualsiasi mossa unilaterale di entrambe le parti. Biden ha mantenuto questa linea, senza provocare Xi sul tema. Dal canto suo, il leader di Pechino è interessato, in questo momento, a prendere utilitaristicamente la distanze dalla guerra di Mosca, strizzando in parte l’occhio a Biden, così come - forse - suggerito dal nuovo «imperatore economico cinese», He Lifeng, il ricchissimo amico d’infanzia di Xi e secondo alcuni, anche più influente del presidente stesso.