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Dopo la sconfitta alle urne per rinnovare il Pd non basta eleggere un nuovo segretario

 
Francesco Intini

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Francesco Intini

Dopo la sconfitta alle urne per rinnovare il Pd non basta eleggere un nuovo segretario

Concentrarsi unicamente sulla campagna elettorale sottintende ovviamente un errore di metodo: non può rappresentare un’analisi puntuale dello stato di salute del partito

Giovedì 29 Settembre 2022, 13:58

Il processo al Partito Democratico è appena iniziato. Un rituale consolidato, accompagnato dalla ormai tradizionale analisi della sconfitta che, puntualmente, si conclude con l’arrivo di un nuovo segretario che tenterà di far dimenticare la fallimentare esperienza del suo predecessore. Un film già visto, che pare ripetersi anche in quest’occasione: Enrico Letta ha infatti già aperto la stagione del congresso, escludendo la sua ricandidatura e mantenendo comunque il ruolo di reggente fino alla nomina di un nuovo segretario.

Ma l’analisi della sconfitta si interrompe, in realtà, molto prima di quanto ci si possa immaginare: concentrandosi sulla strada che vi sarà da qui al congresso, studiando e anticipando le mosse di papabili e aspiranti segretari, si mettono infatti da parte alcuni elementi problematici – strutturali e contingenti – emersi negli ultimi mesi. Sebbene le dichiarazioni di analisti e politici tendano infatti a mettere in discussione il Pd tutto, è proprio durante la campagna elettorale che si sono manifestati quei limiti e debolezze che hanno generato il deludente risultato elettorale e il dibattito che ne è seguito, fuori e dentro il partito.

Concentrarsi unicamente sulla campagna elettorale sottintende ovviamente un errore di metodo: non può rappresentare un’analisi puntuale dello stato di salute del partito – che dovrebbe in primo luogo interrogarsi sull’attrattività di un marchio che non pare più rappresentare un valore aggiunto – né può essere in grado di suggerire delle soluzioni per uscire dall’impasse alla quale sembra da anni condannato.

Focalizzarsi sugli ultimi due mesi di campagna si rivela però fondamentale per rifiutare l’assunto, rilanciato anche in queste ore, per cui la sostituzione della leadership sarebbe una mossa sufficiente per restituire al partito entusiasmo e spinta propulsiva per un nuovo inizio.

Ma partiamo dal principio: prima del voto i sondaggi sembravano fotografare una situazione talmente cristallizzata – stimando un vantaggio incolmabile a favore del centrodestra – da poter sollevare Letta dalla gravosa responsabilità di provare a vincere, obbligandolo però ad una sconfitta almeno dignitosa. Così non è stato, probabilmente a causa di un esito talmente scontato da rovesciare la logica del voto utile, non agevolando il Pd: se la partita è persa, perché non provare allora qualcosa di diverso? Dall’invito alla polarizzazione ne hanno quindi parzialmente tratto vantaggio le altre forze della coalizione (bene Verdi e Sinistra Italiana, non male +Europa a un passo dalla soglia di sbarramento), mentre il Movimento 5 Stelle, rinvigorito dalla cura Conte, ha sfruttato un nuovo posizionamento per ergersi a vero antagonista del centrodestra nelle regioni del sud.

Enrico Letta non si è dimostrato perfetto nella visione strategica: sorvolando sulla confusa gestione dell’alleanza con Azione, la preventiva chiusura al dialogo col Movimento 5 Stelle ha condizionato tanto l’andamento della campagna elettorale quanto – col senno di poi – la contendibilità della vittoria stessa, consegnando il Paese al centrodestra. La scelta era infatti perfettamente consapevole: da una parte per continuare a rappresentare la cosiddetta agenda Draghi (che avrebbe precluso ogni accordo coi grillini), dall’altra per inseguire l’ambizioso tentativo di svuotare l’elettorato di un Movimento 5 stelle, ad agosto, ancora apparentemente in crisi d’identità. La campagna elettorale ha restituito poi una realtà ben diversa: il Pd ha presto smesso di citare Draghi – la cui agenda è stata sostituita con quella sociale – e il M5S si è rivelata poi la forza politica maggiormente capace di intercettare voti nelle ultime settimane di settembre.

Nei mesi precedenti al voto gli errori si pagano: tanto quelli di comunicazione quanto, soprattutto, quelli strategici. Affrontare una campagna elettorale, oggi, è infatti uno sport per professionisti: non solo per consulenti e comunicatori, ma anche e soprattutto per i leader stessi. Da Giuseppe Conte a Giorgia Meloni, passando per i Salvini o Renzi di qualche anno fa: il loro carisma e le loro qualità da trascinatori sono elementi costitutivi della loro leadership, emersi concretamente nel corso delle campagne elettorali che hanno affrontato. Enrico Letta appartiene, invece, a un’altra categoria: sicuramente più pragmatica e razionale, ma decisamente meno carismatica e trascinatrice. Non è durante una campagna elettorale, insomma, che si misurano le sue qualità di segretario.

Diversamente da tutti gli altri partiti però, contraddistinti da strutture più verticali e legate al leader, il Partito Democratico è l’unica forza politica che potrebbe – o forse dovrebbe, essendo una possibilità prevista dallo statuto – distinguere le due dimensioni: quella del segretario, intento ad occuparsi degli affari interni al partito; e quella del frontman da campagna elettorale, con qualità più adatte al suo svolgimento. Una mossa, questa, che sebbene rappresenti la definitiva resa alle logiche di un’arena politico-mediatica iperpersonalizzata, permetterebbe sia di tutelare la figura del segretario che di massimizzare, in campagna elettorale, le potenzialità del Pd. Se un Partito Democratico esisterà ancora.

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