L’indifferenza ha somiglianza con la differenziazione: appartengono a grappoli semantici simili, ma con significati diversi. Il primo termine si può suddividere in «indi-fero» e significa «porto me», il secondo in «dif-fero», «porto differenza», «metto in mostra». Indi: il soggetto che può portare solo se in sé e non essere nella società in quanto indifferente e il differente che intende portare la sua differenza nella società. Ebbene, posta questa breve premessa di natura nominale, nonché sostanziale, non posso non condurvi per mano verso la storia e planare a volo di uccello nella letteratura in compagnia di Pasolini, Moravia, Gramsci: ciascuno con la sua personalità ha compiuto una disamina sull’indifferente attraverso i propri scritti. L’indifferente è colui che non vuole apparire sulla scena né essere nel palcoscenico della vita. Colui che ai margini vede, sente, ma resta lì impassibile: non avrà forse un’anima? Non saprà dove cercarla perché per lui c’è solo uno spazio che il corpo occupa, un tempo che consuma. Vive, non sa di vivere. Eppure è tra noi.
Se Moravia interpreta con acume la società borghese come modello nella quale si perpetua l’indifferenza, Gramsci è molto incisivo e senza fronzoli considera gli indifferenti una specie abulica: «Odio gli indifferenti» perché non sono dei «partigiani», non sono di parte, ma sono dei «parassiti», «non vivono». In altre parole, il ritratto dell’indifferente è chiaro. Non comporta fraintendimenti. Tuttavia, nel secondo millennio la società non è più quella borghese di fine Ottocento e Novecento, essa è sbiadita, o peggio non ha colori, né verticalismi, non ha sfumature, Bauman la definisce «liquida», potrebbe anche dirsi «gassosa», «svaporata» (Marx, Engels); qui l’indifferente non è più colui che non si schiera né da una parte né dall’altra, ma è colui che non sa di esistere perché ciò che conferisce la sua esistenza è la tecnologia. Risulta vano demonizzarla. Certo. Cerchiamo dunque di comprendere. Di comprenderci.
La crisi e la tragedia della cultura non si è arrestata. Emerge anche questo. Pasolini utilizza parole sferzanti nei riguardi della società del benessere parla di «dittatura del consumismo». In altre parole, comprendere ciò che accade «qui et nunc» è prioritario: per intervenire senza giudizi o tifoserie da stadio, evitando i soliti attacchi mediatici che sono spazzati via dopo un giorno a colpi di «tweet», ma i drammi permangono, e prevenire, ovvero intervenire prima della morte di bambine rifiutate, abbandonate, prima di assistere alla morte di un ragazzo, di una donna assassinata, di un vecchio rapinato, e così via. Il quotidiano sembra misurarsi in siffatta maniera. Comprendere è d’obbligo.
Comprendere gli indifferenti. La società. Le relazioni che caratterizzano l’umano e che in questa estate folle (e non solo) sembra essere scomparso, alienato, disperso. Attenzione. Nella società contemporanea si è insinuato un oggetto che ha pervaso e invaso ogni aspetto dell’umano, funge oramai da specchio e diventa un mezzo per riflettere se stesso, uno strumento che dà certezza al nostro esistere. Se non ci fosse per molti sarebbe una tragedia. Nello specifico, Luhmann nel leggere la società intravede la mano della tecnologia digitale che ha oggettivato gli individui. Gli oggetti, le «cose» che risolvono il vissuto. Tutto è determinato dal profitto: da uno scambio utilitaristico.
Luhmann osserva come la società sia governata da oggetti mediatici: l’oggetto che rivela l’esistenza. Tra questi in particolare primeggia il cellulare o smartphone che conferisce esperienza del sé, paradossalmente grazie a esso non si ha più bisogno di rappresentare le forme reali, ma è l’occhio digitale che filma, registra, e poi presenta e rappresenta ciò che vede. E al soggetto disumanizzato, schiavo del proprio oggetto, indifferente, non resta che sedersi e guardare. Non occorrono giudizi, pregiudizi, interpretazioni, emozioni: non intervengono i sensi dell’umano. Ma solo quello di una vista anomica. È così. Si sussegue la trama senza pensare nemmeno di poterla cambiare, né riscrivere, come si potrebbe fare con la storia di un libro, ma si guardano i singoli frame, o tutt’al più si volta la pagina in attesa della scena successiva.
E noi che ci diciamo «indignati» (aggettivo di per sé abominevole), menti pensanti? Noi cosa facciamo per cambiare questa assurda modalità di non vita, questo ebetismo culturale che coinvolge la società? Un’indifferenza strabordante. E le istituzioni? La scuola? Il governo? La chiesa? No. Non basta un «tweet», né un «post», o sbandierare in prima pagina la notizia di cronaca o in prima visione. Forse nemmeno legiferare se accanto al diritto non si accosta l’etica. Il buon senso. Se non si imbandisce una tavola di educazione, rispetto, gentilezza, gettando nell’umido paura, rabbia, violenza, in attesa di riciclo in gioia, coraggio, bellezza.
Non è sufficiente forse nemmeno un articolo perché purtroppo anche alle parole non si conferisce importanza, ci si inventa di tutto poi per apparire ed essere trendy con i «corsivi», gli «stampatelli», i «generi», ecc. Nel frattempo «tutto scorre» e l’umanità che ha un solo genere: quello umano, privata dalla possibilità di differenziarsi con le proprie competenze e i propri meriti si autodistrugge in un’aberrante solitudine e raggelante ipocrisia. Sembra si sia smarrito il senso dell’umano. Il dramma: non si sa più dove trovarlo, se almeno si conoscesse in quale luogo cercarlo!?! Un indizio: il luogo dell’anima.
















