Sabato 25 Ottobre 2025 | 17:58

Il cav non era mafioso: la cassazione chiude una stagione «tossica»

Il cav non era mafioso: la cassazione chiude una stagione «tossica»

 
biagio marzo

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biagio marzo

Il cav non era mafioso: la cassazione chiude una stagione «tossica»

EX PREMIER - Silvio Berlusconi

N’è passata di acqua sotto i ponti, ma alla fine è arrivata la verità a tutto tondo

Sabato 25 Ottobre 2025, 14:35

Causa finita est. N’è passata di acqua sotto i ponti, ma alla fine è arrivata la verità a tutto tondo. Per la Cassazione non esiste alcun legame fra la mafia, Silvio Berlusconi - e Marcello Dell’Utri - le sue aziende e Forza Italia. Una sentenza definitiva, che chiude una vicenda durata quasi trent’anni e restituisce al Cavaliere l’onore che per decenni gli era stato negato.

Gli eredi, gli amici politici e non, e gli elettori di Forza Italia hanno dovuto attendere tre decenni per vedere dissolversi l’ombra di una persecuzione giudiziaria che ha attraversato l’intera Seconda Repubblica. Una sentenza che fa chiarezza e che delude - o meglio, smentisce - quanti in questi anni hanno costruito carriere, consensi e fortune editoriali scrivendo del «mafioso» Berlusconi. Una narrazione tossica, reiterata con zelo, spesso più ideologico che probatorio, e che ha nutrito un’intera letteratura di sospetti. Sciascianamente parlando, Il giorno della civetta si è concluso con il volo dell’uccello rapace notturno: la verità ha preso il largo e il Cavaliere ne esce senza macchia mafiosa, libero da quella lettera scarlatta che, fino alla fine dei suoi giorni, ha portato addosso come un marchio d’infamia.

Da quando l’imprenditore Silvio Berlusconi decise di scendere in politica, nel gennaio del 1994, nulla fu più come prima. La sua «discesa in campo» travolse la cosiddetta «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e spazzò via i resti della Prima Repubblica. Ma insieme alla sua ascesa, cominciò anche una lunga stagione di sospetti, processi, attacchi mediatici. Berlusconi divenne, al tempo stesso, il simbolo e il bersaglio del nuovo potere giudiziario-mediatico nato dall’epopea di Mani Pulite. Le sue reti televisive, durante la stagione delle manette, furono osservate speciali: i cronisti posteggiati sotto il Palazzo di giustizia di Milano contavano chi entrava e chi non usciva, trasformando l’informazione in una liturgia del giustizialismo. Era l’epoca in cui la toga sembrava diventata un vessillo morale e la politica un campo di colpevoli in attesa di condanna.

La Prima Repubblica affondava, e la Seconda sorgeva sotto un nuovo simbolo: non più quello di Costantino - «In hoc signo vinces» - ma quello del Cavaliere. La sua escalation elettorale fu straordinaria: un «partito di plastica» fondato in pochi mesi, un linguaggio diretto, un consenso popolare che ricordava i fasti democristiani. Da allora, Berlusconi non ebbe più tregua. I suoi avversari politici, gli intellettuali militanti e le tricoteuses della pubblica morale non smettevano di sferruzzare articoli e pamphlet contro di lui, denunciando oscuri rapporti con la mafia, trame indicibili, patti scellerati.

Oggi, dopo la sentenza della Cassazione, quei fili si spezzano: nessuno di loro ha trovato la dignità di scrivere una riga di scuse. Si potrà discutere a lungo del modo in cui ha governato, dei suoi limiti, delle sue contraddizioni, dei conflitti di interesse, delle leggi ad personam e del suo macchiettismo per sembrare politicamente un irregolare. Ma ciò che non si potrà più dire, perché giudiziariamente e storicamente smentito, è che Silvio Berlusconi abbia avuto legami con la mafia. Ne esce immacolato, e con lui tramonta un intero filone di demonizzazione politica che, per anni, ha confuso la giustizia con la lotta di parte. La Cassazione non riabilita solo un uomo, ma chiude simbolicamente una stagione della Repubblica.

Una stagione in cui l’avversario politico veniva trattato come un imputato, e la sentenza d’assoluzione arrivava sempre troppo tardi.

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