Parlare di sé, del proprio vissuto, a chi ti ascolta e non ti aspetti che ti giudichi è una esigenza imprescindibile anche per l’uomo contemporaneo, che al centro di ogni pensiero ha imparato a mettere il proprio «Io». Un ossimoro, certo. Ma un ossimoro che svela tutta la fragilità umana, costantemente alla ricerca di una spiritualità che possa «capirlo-perdonarlo-salvarlo».
Nel raccontare se stessi con sincerità e senza paure di giudizio, l’ «Io» passa in secondo piano, non è più centrale. È come se chi parla cominciasse ad ascoltarsi, ed egli stesso capace di decodificare il racconto, capire la realtà, avvertire l’esigenza di perdonarsi e di sentirsi salvo nel ripartire.
Il fulcro della psicanalisi, direbbe qualcuno. Ma la psicanalisi non è gratuita e soprattutto non è detto che chi ti ascolta per «soldi» non sia lì a «giudicarti», pur nel nascondimento.
La gratuità. Ecco il segreto del successo del «signore con barba leggermente profetica, sorriso simpatico» incontrato da Gianrico Carofiglio (v. Telegramma di domenica 5 giugno 2022) in un parco parigino con un cartello con su scritto: «Venite a parlarmi di voi. È gratis». «C’era la fila - scrive Carofiglio - e la cosa mi ha messo allegria».
In un mondo esasperato dal denaro, dal «costo» del tempo e di ogni pensiero, dalla sua «produttività», scoprire che c’è chi è disposto ad ascoltarti, gratuitamente, cioè col dono di sé, senza conoscerti, senza poter mettere in relazione la tua storia di vita con ciò che dici di più intimo, e quindi senza il retropensiero del giudicarti, come direbbe certa pubblicità: non ha prezzo.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere sulla necessità improrogabile di porre il tema della Confessione nel dibattito sinodale intrapreso dalla Chiesa italiana e della Chiesa universale. Se l’esigenza di parlare di sé intimamente, che significa mettere a fuoco i propri peccati nel racconto del proprio vissuto, è viva come sempre nell’uomo contemporaneo, è tempo di interrogarsi su cosa tenga vuoti i confessionali. Vuoti solo per l’assenza dei peccatori? O anche per l’assenza dei confessori?
È tempo di parlarne insieme, senza tabù, senza supremazie, ma cristianamente e fraternamente tra religiosi e laici, tra uomini e donne, tra padri/madri e figli/figlie, tra nonni/nonne e nipoti, tra amici e amiche, del senso del peccato, e non rimanere legati a formule «ottocentesche», né tantomeno «liberarsi dell’incombenza» relegandola ad avvenimenti eccezionali.
Una Chiesa aperta deve significare anche questo. Ma in una Chiesa aperta se non trovi anche un «uomo di Dio», e perché no anche «una donna di Dio», pronto/a «gratuitamente» ad ascoltarti, e non ti aspetti che ti giudichi, potresti sentirti davanti ad una montagna da scalare a piedi nudi per raggiungere quella spiritualità, che possa «capirti-perdonarti-salvarti».