Se la guerra alla pandemia sembra avviarsi alla fine, quella in Ucraina è appena cominciata. Guerra, parola terribile e pur sempre presente nella vita degli uomini, tanto che i greci le avevano dedicato anche un dio: Ares, assetato di sangue e di vendetta e di cui bisognava sempre diffidare. Alla fine questa è la guerra: sangue e vendetta e Putin sta recitando alla perfezione il ruolo di leader di cui diffidare.
La guerra entrerà nelle nostre case, nei modi più disparati, ma entrerà. Anche se l’Ucraina sembra distante. Pure Wuhan sembrava lontana, ma il virus è arrivato lo stesso e ha colpito duramente, mietendo centinaia di migliaia di vittime e affossando l’economia. Ci sono anche ferite profonde che solo ora affiorano e che sarà difficile rimarginare. C’è un’intera generazione, quella della didattica a distanza, dei lunghi mesi tappati in casa, che è stata segnata dalla pandemia. E ora deve far fronte a un’altra guerra.
Tutta la narrazione dell’emergenza sanitaria è avvenuta attraverso la metafora bellica. Dal «nemico» sconosciuto e invisibile ai sanitari in «prima linea», dalle «armi» che mancavano per «combattere» il virus agli «eroi» sacrificati per salvare gli altri, dal «coprifuoco» serale ai «posti di blocco» per impedire l’accesso alle «zone rosse». Parole che noi giornalisti per primi abbiamo usato e abusato cavalcando la prosa dei conflitti. Ma di fronte alle code davanti ai supermercati, alle strade una volta rutilanti di gente e di colori e diventate deserte, di fronte ai camion militari carichi di bare, quale altro linguaggio si sarebbe potuto utilizzare? E manco a farlo apposta alla fine è arrivato un generale, uno vero che non ha mai abdicato alla divisa e al fiero cappello da alpino, a portarci l’arma risolutiva – i vaccini – che ci ha permesso di rovesciare le sorti della battaglia.
Tutto questo ha inciso sui nostri ragazzi, soprattutto adolescenti, che ai problemi tipici della loro età hanno aggiunto un disagio simile a quello dei coetanei che hanno vissuto l’esperienza delle bombe e dei carri armati. Altro che la retorica della guerra che forgia gli animi, dello spirito «maschio» coltivato attraverso l’uso della violenza in divisa, che tante tragiche ideologie del Novecento ha alimentato. Molti adolescenti di oggi sono vittime di un senso di panico che si manifesta nelle forme più diverse: paura di tornare a scuola, di riallacciare i rapporti con i compagni di classe, di fare un compito, di sostenere un’interrogazione, di dichiarare i propri sentimenti nel timore di essere respinti. Emerge prepotente quell’insecuritas che da sempre è croce e delizia dell’animo umano, che lo spinge a rinchiudersi come ad accettare la sfida dell’ignoto. Pensavamo di aver debellato l’insicurezza esistenziale grazie alla tecnologia, che ci ha illusi di avere un controllo assoluto sulla natura e sulle nostre passioni. La pandemia ha icasticamente mostrato che così non è e ci ha sbattuto in faccia un’altra paura che avevamo rimosso: la morte. Come la parola guerra, la parola morte è tornata nelle cronache, in tv, sui giornali, con tutto il suo carico di angoscia e di mistero.
I ragazzi si sono rivelati fragili e permeabili a questa corrosione subdola e silenziosa. La maggior parte ha reagito rinchiudendosi in gabbie protettive come la propria stanzetta, i social, una cerchia ristrettissima di amici in carne e ossa. Ma alla prima necessità di riaprirsi a quella che chiamiamo ancora «vita normale» hanno avvertito i sintomi del malessere sotterraneo che li aveva colpiti. Chi ha reagito pensando che la soluzione fosse nell’esercizio della violenza, vedi il moltiplicarsi di aggressioni e di bande di picchiatori, perché quando meni le mani, quando strappi i vestiti di dosso a una ragazzina ti senti forte, pensi di aver superato la debolezza che hai dentro. Chi ha reagito rinchiudendosi ancor più, alimentando così un’ansia di vivere e andando ad affollare gli studi di psicologi e psicoterapeuti, accompagnati da genitori increduli che non riescono ancora ad afferrare quel che è successo ai loro ragazzi.
Adesso la vita di ogni giorno ci sbatte in faccia di nuovo la parola guerra, in passato avrebbe prodotto la sagra delle manifestazioni pacifiste, soprattutto di studenti. Ma oggi sono la generazione debole. In verità nessuno sa quali effetti concreti il conflitto in Ucraina avrà su ciascuno di noi. Analisti, esperti e strateghi disegnano gli scenari più diversi: milioni di profughi, crollo dell’economia, gas e petrolio introvabili con conseguenti effetti sul sistema del turismo e dei trasporti. Nessuno però è in grado di prevedere in che misura e per quanto tempo questo avverrà. Ma soprattutto nessuno è in grado di dire quanto quest’altra guerra scaverà nel profondo delle giovani generazioni. Quelle stesse da cui nascerà la classe dirigente di domani che sarà o troppo aggressiva o troppo timorosa. L’equilibrio bisogna costruirlo oggi, tenendo a mente che Kiev – come Wuhan – non è lontana. Perché nella globalizzazione la lontananza non c’è più.

foto Todaro
Le reazioni dei ragazzi che si sono rivelati fragili e permeabili a questa corrosione subdola e silenziosa
Lunedì 28 Febbraio 2022, 14:35