Come sempre più spesso capita riguardo le questioni di più stringente attualità, chi discetta di riforma della giustizia non è mai stato in un tribunale in vita sua, non ha mai toccato con mano l'inciviltà delle nostre carceri, non ha mai cercato soccorso in un giudice dopo aver subito un torto con rilievi penali e civili.
Vizio antico: si discetta sui social come al bar di argomenti dei quali si sa giusto un sentito dire, una informazione appresa da qualche imprecisato cugino, indossando a seconda del momento la casacca del virologo, dell'allenatore della nazionale di calcio, del quirinalista, del giureconsulto.
Eppure, ci vorrebbe così poco. Nei tribunali italiani ci sono – salvo pochissime eccezioni e con esempi ancor più negativi come quello di Bari dove poco tempo fa fu necessario tenere i processi nelle tende da campo perché negli uffici giudiziari pioveva e c’erano rischi per l’incolumità dei frequentatori – gli arredi che erano nelle nostre case 30 anni fa. Gli impianti di riscaldamento funzionano a singhiozzo, come quelli di climatizzazione, tanto che d’inverno si sta in aula con i cappotti sotto le toghe e le stufette d’emergenza mentre d’estate l’unico antidoto al caldo tropicale sono ventilatori a pale che nemmeno nelle località desertiche più sperdute.
Nelle aule d'udienza – quando sono agibili – spesso si fanno i verbali a mano e i dispositivi di sentenze penali vengono scritte con geroglifici incomprensibili, pur trattando della vita e della libertà delle persone. Gli organici sono ridotti all'osso rispetto alla richiesta di giustizia che c'è tanto è vero che basterebbe per un mese tenere a casa i giudici onorari, componente che teoricamente, doveva essere residuale e complementare, per bloccare il settore.
Chi si occupa di giustizia non per moda e non per spostare i riflettori di una inchiesta dal suo perimetro a chi li ha accesi, quei riflettori, sa bene che la prima riforma della giustizia richiede personale e risorse, che senza soldi e assunzioni (non quelle spot dell’ufficio del processo ma strutturali e dunque in grado di essere realmente risolutive) non si potranno mai imporre sul serio termine perentori per lo svolgimento dei processi, il deposito delle sentenze, la conclusione di contenziosi nei quali spesso ballano cifre impressionanti e rimangono appese a lungo opere pubbliche e infrastrutture, e perfino la politica industriale di una intera nazione come dimostra il caso dell'Ilva di Taranto.
Lo stato artigianale in cui versa la giustizia italiana fa da sempre comodo a tutti: ai politici che tengono a stecchetto la magistratura, mettendola nelle condizioni di essere cronicamente inefficiente; alla magistratura che respinge ciclicamente le accuse di lungaggini proprio con l'assenza di strumenti per operare.
Un equilibrio precario, reso insostenibile dall'ingerenza nella politica da parte di quelle toghe che pensano, spesso sbagliando, che un bravo pubblico ministero, dotato di corposa rassegna stampa modello Di Pietro, possa essere anche un eccellente amministratore, e dall'ingerenza della politica in affari di giustizia che possono essere sereni e terzi solo con la politica a distanza di sicurezza.
Trent'anni fa, l'Italia si strinse ai giudici di Milano, prima, e a quelli siciliani, poi, in un contesto storico nel quale la lotta per la legalità si faceva a colpi di leggi ad personam e attentati stragisti. Ci stava, malgrado alcuni eccessi (le monetine a Craxi, i suicidi eccellenti, giusto per citare alcuni esempi). A rovinare tutto furono le invasioni di campo, anzi i cambi di campo e di casacca, quelle porte girevoli che tanto male hanno fatto e ancora fanno alla politica, alla magistratura e al Paese.
Secondo il professor Gustavo Zagrebelsky «i magistrati operano in nome della giustizia, i politici del bene comune, i giornalisti della verità». O almeno così dovrebbe essere se le carriere di questa triade di professionisti non si incrociassero troppo spesso. Nessuno auspica che i giudici vivano il dramma della solitudine evocato da Piero Calamandrei, secondo il quale il magistrato «per giudicare dev’essere libero da affetti umani e posto un gradino più su dei suoi simili, raramente incontra la dolce amicizia che vuole spiriti allo stesso livello e, se la vede che si avvicina, ha il dovere di schivarla con diffidenza, prima di doversi accorgere che la muoveva soltanto la speranza dei suoi favori, o di sentirsela rimproverare come tradimento alla sua imparzialità».
Si tratta di una visione ormai poco allineata con il mondo di oggi, nel quale la separazione delle carriere necessaria non è quella, più volte blandita o minacciata, tra magistrati requirenti e giudicanti, ma tra magistrati e politici.

Equilibrio sempre più precario per la mancanza di una linea di demarcazione tra le carriere
Domenica 20 Febbraio 2022, 17:14
17:19