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Da Banfi a Rubini, a Solfrizzi e Zalone: col cine-dialetto la Puglia va di moda

 
Michele Anselmi

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Michele Anselmi

Col cine-dialetto la Puglia va di moda

Lino Banfi, mattatore del dialetto pugliese

La lingua si evolve e piace: dal porca puttena di Oronzo Canà, il dialetto nostrano è molto più apprezzato

Sabato 19 Marzo 2022, 14:25

18:29

Diciamo la verità: al cinema o nelle serie tv non si può più ascoltare una calata dialettale orecchiata, malfatta, approssimativa. Giancarlo Giannini è un grande attore, ma sentirlo parlare napoletano vestito da Eduardo Scarpetta nel recente film I fratelli De Filippo riporta ad anni lontani, quando «il dialetto da cinema», stereotipato dunque efficace, era un po’ la regola e nessuno ci faceva caso. Vale anche per il commissario Montalbano di Luca Zingaretti, bravo per carità, ma alla lunga anche i cabbasisi vengono messi a dura prova da una cadenza che suona tanto familiare quanto fasulla. La Puglia mi pare un caso diverso, più interessante, di scuola. Anche se sembra impossibile che appena pochi mesi fa Lino Banfi sia finito nel mirino del Moige per aver rispolverato il tormentone Porca puttena in uno spot della Tim. È dal 1984, dai tempi di L’allenatore nel pallone, dov’era il mitologico Oronzo Canà, che il comico di Canosa dice quella battuta, cara anche ai ragazzini; ma c’è sempre, tra gli occhiuti censori, qualcuno più realista del re.

Per decenni Banfi ha incarnato una certa idea del cine-dialetto pugliese, certo esagerando un po’, nel timbro e nella storpiatura, per strappare una risata anche a chi pugliese non era. Ma poi le cose sono cambiate. Direi dal 1990, grazie a La stazione di Sergio Rubini prodotto da Domenico Procacci. Con l’affacciarsi di una nuova generazione di registi e attori, la «pugliesità» ha acquisito una diversa forza espressiva, a suo modo anche una verità antropologica, fuori dai binari prevedibili delle banalizzazione cinematografica (forse non tutti sanno che il romano Max Turilli per anni ha doppiato solo due tipi di personaggi: il marchigiano burino e il nazista crudele). A chi penso? Appunto a registi come il già citato Rubini, da Grumo Appula; Nico Cirasola, da Gravina di Puglia; Maurizio Sciarra, da Bari; Alessandro Piva, da Salerno ma naturalizzato barese; Michele Placido, da Ascoli Satriano; Gennaro Nunziante, da Bari; Edoardo Winspeare, da Klagenfurt ma ormai leccese di Tricase a tutti gli effetti, solo per citarne alcuni. E poi attori come Riccardo Scamarcio, da Andria; Emilio Solfrizzi, da Bari; Vanessa Scalera, da Mesagne; Bianca Guaccero, da Bitonto; Celeste Casciaro, da Corsano; Dino Abbrescia e Paolo Sassanelli, entrambi da Bari; per arrivare al più amato e universale di tutti: s’intende Checco Zalone, al secolo Luca Pasquale Medici, da Capurso.

Grazie ad essi, parlo da non pugliese attratto dalle Puglie, ho cominciato ad apprezzare sfumature dialettali veritiere, accentuazioni e «acciaccature» non convenzionali, differenze legate alle classi sociali di appartenenza. Sicché alcuni luoghi comuni si sono via via sbriciolati, perché, a prescindere dalla riuscita di questo o quel film, s’è imposta la varietà non scontata di un dialetto cangiante, non «cristallizzato» in sonorità da macchietta. In fondo ha ragione Banfi quando ricorda: «Al contrario della napoletanità e della sicilianità, che vantano tante tradizioni illustri, sia letterarie sia teatrali, la pugliesità non esisteva fino a qualche anno fa. Noi non vantavamo nulla, ma io volevo imporre all’Italia intera il dialetto pugliese, che trovavo così simpatico, pur con alcune smussature, per renderlo più comprensibile».

Naturalmente Zalone ha modernizzato al massimo, tra localismo spinto e ironia beffarda, il pugliese da cinema. Leggo in un saggio universitario, a proposito del punto di vista testuale-narrativo veicolato da Cado dalle nubi, la seguente frase: «Il primo film con Checco Zalone si offre come prototipo di un filone nuovo nel genere comico. Si tratta di commedie che hanno luogo in piccole località e propongono allo spettatore un parlato neo-standard punteggiato da tratti fonetici e morfosintattici della varietà diatopica locale e spesso non ancora affermata nel cinema italiano».

Paroloni a parte, c’è del vero. Un motivo ci sarà se per anni abbiamo creduto che Domenico Modugno fosse siciliano e Renzo Arbore napoletano, invece l’uno era nativo di Polignano a Mare e l’altro di Foggia. Le origini, e quel che ne consegue sul piano linguistico/dialettale, hanno faticato a imporsi, a rivendicare il proprio ruolo fondante. Adesso non è più così. L’ha spiegato bene Solfrizzi. «Nessuno deve prescindere dalle proprie origini. Non potremmo essere quello che siamo se trascurassimo la nostra lingua, le nostre radici, e a quella saremo sempre legati in un modo o nell’altro. Rivendicare le proprie origini costa fatica». E ancora: «È difficile per un pugliese esprimersi nel suo dialetto in un film “serio”. Avete mai visto in una fiction italiana un magistrato parlare pugliese? Al più parlano napoletano, siciliano… Il pugliese non lo si sente mai, se non per ruoli più umili. Il grande Lino Banfi è riuscito a farsi strada, ma ha dovuto inventarsi uno slang tutto suo».

Magari non è più così, ormai la Puglia, come s’usa dire, va di moda al cinema: registi come Cristina Comencini o Ferzan Ozpetek hanno usato paesaggi, scorci e piazze per ambientarvi le loro storie, perfino attori di lingua anglosassone come Helen Mirren o Ronn Moss si sono trasferiti nel Salento, in cerca di sapori, odori e climi nuovi. Per non dire di un certo gusto goliardico legato al «ridoppiaggio» casalingo in pugliese, tra surreale e burlone, di sequenze celebri o interviste, da L’esorcista a Mick Jagger, sempre accolto con favore da folle di youtubers. Del resto, come recitava il titolo di un gettonato brano promozionale/turistico del foggiano Santino Caravella con Banfi in partecipazione speciale? Piglia la Puglia, mi amor.

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