BRINDISI - Esame del Dna sui resti ossei che l’imputato Enrico Morleo ha fatto trovare in un pozzo vicino a un casolare abbandonato, in una campagna a sud della zona industriale di Brindisi, lo scorso 21 dicembre. Passaggio processuale necessario per accertare se quei frammenti siano dell’imprenditore Salvatore Cairo, attivo nel settore del commercio delle pentole e degli articoli per la casa, scomparso il 6 maggio 2000. La Corte d’Assise di Brindisi, ieri, ha conferito incarico alla genetista Giacoma Mongelli e al medico legale Liliana Innamorato.
Oltre all’estrazione del profilo genetico per la comparazione con quello dei fratelli di Cairo, i periti dovranno stabilire se i frammenti di ossa «presentano tracce di combustione e sezionamento con motosega». Per conoscere le conclusioni dei periti saranno necessari almeno 60 giorni. La Corte ha fissato al 16 aprile prossimo l’esame della genetista e del medico legale, salvo proroghe che potrebbero essere chieste nel caso in cui le verifiche dovessero rivelarsi più complesse rispetto alle previsioni.
I periti esamineranno un pezzo di una teca cranica, il frammento di un piede e altre ossa maschili, assieme a due scarpe da uomo e una cintura, riportati a galla da 15 metri di profondità dai vigili del fuoco, al termine del sopralluogo che la Corte d’Assise presieduta da Maurizio Saso e il pubblico ministero della Dda di Lecce, Milto Stefano De Nozza, hanno eseguito nel punto indicato da Cosimo Morleo. L’imputato è accusato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Cairo, mentre il fratello Cosimo è ritenuto il mandante. Secondo l’accusa, Cairo, così come Sergio Spada, l’altro imprenditore che lavorava nello stesso settore, trovato cadavere nella sua auto, con un foro di pistola alla nuca, l’11 novembre 2001, sarebbero stati uccisi perché diventati scomodi per le attività di cui avrebbe voluto occuparsi Cosimo Morleo. Ai due imputati, sottoposti a fermo il 3 marzo 2022 e ad oggi in carcere, per entrambi gli omicidi, sono contestate le aggravanti della premeditazione e del metodo mafioso. Tutti e due hanno respinto le accuse mosse anche sulla base delle dichiarazioni rese alla Dda di Lecce da Massimiliano Morleo, il fratello più giovane, diventato collaboratore di giustizia.
Enrico Morleo, in una delle ultime udienze, ha riferito alla Corte di aver trovato il cadavere di Cairo all’interno della legnaia dove lavorava all’epoca e che, in preda al panico, lo ha fatto a pezzi usando una motosega a scoppio trovata fra gli attrezzi, per poi dar fuoco ai resti e gettarli nel pozzo.
«Io non sono un serial killer. Ho ancora gli incubi per quello che ho visto: ho trovato Salvatore Cairo a terra, morto, con gli occhi aperti, in un mare di sangue. Non ho capito più niente e ho pensato di far sparire il cadavere perché se mi avessero visto, mi avrebbero arrestato», ha detto ai giudici togati e popolari chiamati a pronunciarsi sul suo contro. «L’ho fatto a pezzi e mentre tagliavo piangevo, poi l’ho bruciato e ho gettato tutto in quel pozzo. Ma io non l’ho ucciso e mio fratello Massimiliano dice il falso perché mi odia e voleva prendersi l’azienda di Cosimo». Questa, almeno, la verità dell’imputato.