BRINDISI - Abitazione diventata centrale di confezionamento e smistamento della droga per conto della Sacra corona unita: il brindisino Alessandro Coffa, 40 anni, secondo la Corte d’Appello di Lecce, ha assunto una posizione di vertice, svolgendo attività «prevalentemente nel settore del narcotraffico, nella piena consapevolezza e volontà di perseguire l’obiettivo di agevolare l’associazione mafiosa di cui è figura apicale».
Nelle motivazioni della sentenza di condanna a 21 anni e due mesi di reclusione, rispetto ai venti anni in primo grado, depositate nei giorni scorsi, i giudici (presidente Nicola Lariccia) hanno fatto riferimento «a una mole di elementi emersi a carico di Coffa», dopo la conclusione delle inchieste chiamate «Synedrium» e «Fidelis», sfociate negli arresti eseguiti dai carabinieri a febbraio 2020, sul clan Romano-Coffa, con base nel quartiere Sant’Elia di Brindisi, come ramificazione della Sacra corona unita, e sul traffico di droga, entrambe avviate da una costola dell’indagine sull’omicidio di Cosimo Tedesco, 52 anni, ucciso a colpi di pistola, il primo novembre 2014 in un appartamento di un condominio in piazza Raffaello.
Dagli elementi raccolti, risulta «in maniera univoca» il ruolo ricoperto da Coffa nel gruppo ritenuto di stampo mafioso: da un lato ci sono le conversazioni intercettate e dall’altro le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, «in primis» quelle di Andrea Romano, secondo cui Coffa avrebbe fatto parte del sodalizio sin dal 2004-2005 per poi assumere una posizione di primo piano. Per la difesa, invece, le dichiarazioni di Ercole Penna, Fabio Luperti, Sandro Campana, Antonio Campana e Roberto Leuci, non sarebbero convergenti, ma contraddittorie e inattendibili, perché mentre alcuni hanno indicato Romano e Coffa come affiliati al gruppo cosiddetto mesagnese, altri li indicavano come appartenenti alla frangia brindisina. Quanto, in particolare, alle dichiarazioni rese da Andrea Romano, per la difesa di Coffa, non sarebbero state disinteressate, come sostenuto dalla procura, e non avrebbero offerto un quadro veritiero.
Ma la Corte d’Appello di Lecce ha riconosciuto il patentino di credibilità a Romano e nelle motivazioni ha anche fatto espresso riferimento alla sentenza di primo grado, sottolineando che «la condizione detentiva, prima domiciliare e poi carceraria, di fatto, non sminuiva la sua leadership, privandolo della sola possibilità di commettere reati in prima persona». Coffa, stando alla sentenza, avrebbe delegato «il compito della fornitura, dello smercio dello stupefacente e del recupero dei proventi, alla moglie, Maria Petrachi, e alle altre donne del clan». La donna, 36 anni, è stata condannata alla pena di 14 anni di reclusione, così come stabilito in primo grado.
Il ruolo che avrebbe rivestito la moglie di Coffa è stato ricostruito da Romano, secondo il quale la donna avrebbe ricevuto «lettere in cui, nero su bianco Coffa impartisce direttive». Per i giudici, l’imputata «soprattutto nel periodo in cui il marito è detenuto, si rende protagonista delle strategie del sodalizio, funge da collettore degli utili dell’attività di spaccio, tiene la contabilità del sodalizio, gestisce il recupero dei crediti non con semplici raccomandazioni, ma addirittura pianificando o minacciando gli insolventi di spedizioni punitive». La Corte ha richiamato anche un passaggio delle motivazioni del tribunale del Riesame in cui la donna viene definita «una co-dirigente». Sulla base delle motivazioni della Corte salentina, i difensori di Coffa e Petrachi, potranno presentare ricorso in Cassazione.