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Il difficile compito
di normalizzare
il «ribellismo»
del movimento

 
MICHELE COZZI

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MICHELE COZZI

Luigi Di Maio

Luigi Di Maio

Lunedì 25 Settembre 2017, 17:34

di MICHELE COZZI

Il M5S alla fase due. Da quella identitaria e protestataria al modello istituzionale. L’investitura di Luigi Di Maio a candidato-premier sancisce il tentativo di cambiare abito. Di aprirsi a mondi sociali ed economici nuovi. Dal partito (scusate, movimento) di lotta a quello di governo.

Il «miracolo» è sicuramente più difficile di quello annuale del sangue di San Gennaro, teca che «Luiggino» si è affrettato a baciare come se fosse un qualsiasi esponente meridionale della Prima Repubblica.

Il M5S è per natura un movimento «contro» poteri, istituzioni, caste, partiti, sindacati. Un classico partito «antisistema», come ha scritto Panebianco, di cui è ricca la storia del Paese che non ha mai conosciuta una vera stagione liberale.

Per questo, la forzatura di Di Maio può apparire allo stesso tempo rassicurante e rischiosa. Può convincere qualche moderato a votare il Movimento, ma può anche portare schegge non minoritarie dell’elettorato verso nuovi o vecchi lidi e a sgonfiare la «bolla grillina».

Le primarie-fantasma, con cui 37mila votanti su una platea di 140mila iscritti sono state un flop. Non proprio un appuntamento da incorniciare.

Nel medioevo, prima di aprire discussioni filosofiche, il punto di partenza era: mettiamoci d’accordo sul significato delle parole. Esercizio difficile con il M5S. A partire dalla concezione della democrazia. La loro, la chiamano «diretta». L’opposto di quella rappresentativa. Il campionario si è visto con le primarie-clandestine: dal candidato unico, circondato da candidati-fantasma, alle procedure macchinose del voto on line, con il rischio di attacchi hacker, all’assenza dal teatrino dell’unico oppositore interno.

Quel Fico, che avrebbe potuto far ombra alla vittoria di «Luiggino» e, che ieri, si è affrettato a dire di non riconoscere a Di Maio il ruolo di leader del Movimento.

Non proprio un bigliettino d’auguri per il candidato-premier. Un Movimento spaccato rischia di essere, ancor più, in balìa dei venti e degli eventi.

E la cultura del vaffa-day, degli attacchi e insulti squadristi ai giornalisti può cambiare di pelle è divenire propositiva?

A Di Maio candidato-premier e nuovo uomo forte del M5S il compito di sciogliere questa matassa. Ma l’impresa non si presenta facile. Ci sono settori politici e culturali che sognano una tale trasformazione del movimento di Grillo, Casaleggio e ora di Di Maio. Ma in politica, come in natura, è difficile cambiare di pelle.

Il M5S si iscrive nella tradizione del «ribellismo» fine a se stesso di una «vena» del Paese che nasce nel Dopoguerra con l’Uomo Qualunque di Giannini, risorge con i moti dell’ultradestra e dell’ultrasinistra negli Anni Settanta e trova nuova linfa nel populismo prima leghista e poi grillino.

Movimenti che raggiungono il punto più alto per poi scoppiare nell’incapacità di proporre una prospettiva politica e responsabile agli «arrabbiati». È la cosiddetta «democrazia degli scontenti» che alimenta la Brexit o la vittoria di Trump. Il M5S si ritrova a pieno titolo in tale filone.

Ma rischia di arrivare in ritardo all’appuntamento con la storia. Perché il «declinismo», così caro ai catastrofisti di ogni risma, inizia a perdere colpi. Gli indici di crescita dei Paesi europei sono positivi e persino l’Italia cresce più del previsto.

L’immigrazione è un problema epocale, ma forse i Paesi europei hanno trovato la chiave per un controllo rigoroso e umanitario dei flussi. Non è il paradiso, ma nemmeno l’inferno.

A Di Maio, la responsabilità di tentare il miracolo di normalizzare un Movimento che, per natura, non intende essere normalizzato.

di Michele Cozzi

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