L’altra sera a Wembley non si è giocata solo una finale di calcio che ha fatto palpitare i cuori di milioni di italiani come non accadeva da tempo. L’altra sera è stata offerta in mondovisione l’istantanea di un mondo diverso e del cui cambiamento non ci eravamo accorti. Una metamorfosi dettata dal Covid o dalla Brexit o forse dalle due cose insieme e di cui occorre prendere atto.
L’elemento che più ha fatto scalpore è stato il comportamento dei nostri ospiti, per nulla ospitali. Dell’alterigia inglese, sapevamo; della loro quasi certezza nella vittoria anche; del complesso di superiorità calcistica nei confronti dell’Italia, lo stesso. Ciò che non sapevamo è che il tanto declamato «stile british», fatto di ironia, di tatto, di eleganza, di signorilità non esiste più. Così come non esiste più quella pratica sportiva che guarda caso è stata battezzata con un nome inglese – a merito delle origini – e che si chiama «fair play». Espressione che letteralmente significa «gioco corretto» ma che in realtà indica un modo d’essere, un’etica dello sport fatta di rispetto delle regole e degli avversari. È insomma quella legge non scritta che ti impone di gettare il pallone fuori quando un avversario è a terra e che sua volta obbliga la sua squadra a restituire il possesso palla.
Bene, di tutto questo l’altra sera non s’è visto nulla. A cominciare dai fischi all’Inno di Mameli. Pratica irriguardosa e stupida che serve solo a creare tensioni e risentimenti. Oltretutto a Wembley, con un rapporto di pubblico di 1 a 10 fra italiani e inglesi, non c’era proprio bisogno di arrivare a tanto. Come se non bastasse, il poco riguardo avuto per il nostro presidente della Repubblica. Il dovere di ospitalità avrebbe richiesto che fosse invitato a essere presente accanto all’erede al trono e non solo una toccata di gomito con Boris Johnson, che è un primo ministro e non un capo di Stato. Per essere chiari, sarebbe stato corretto che Johnson salutasse Draghi, se vi fosse andato, ma Mattarella è molto di più: è il simbolo della Nazione. E l’altra sera questo simbolo è stato poco rispettato.
Infine il gesto che più ha colpito e ferito, non gli italiani, ma ogni amante dello sport, coloro che ancora educano i ragazzini al rispetto dell’avversario e delle regole, a non simulare falli inesistenti con cadute che neppure al cinema. In proposito Sterling l’altra sera ha dato un ampio saggio delle capacità di stuntman oltre che calcistiche. A fine gara abbiamo assistito alla quasi totalità dei calciatori inglesi che con disprezzo si toglievano dal collo la medaglia d’argento appena ricevuta. Un gesto da imbecilli. Se hai perso la partita con chi vuoi prendertela se non con te stesso? L’arbitro non ha favorito nessuno, sei stato in vantaggio per tre quarti di gara, hai avuto a disposizione un pubblico che è stato dodicesimo e tredicesimo giocatore in campo, hai avuto 5 rigori da battere come il tuo avversario e allora? Perché tutto questo puerile disprezzo verso la medaglia della Uefa? Certo, la gioia e la festa italiana può dar fastidio a chi vive da sempre con la puzza sotto il naso e farsi battere in casa da undici ragazzotti che hanno tanta voglia di divertirsi fa salire il sangue agli occhi, ma quel gesto è davvero insopportabile e se la Uefa fosse un po’ più seria dovrebbe intervenire in qualche modo.
Se il modello British di cui ci eravamo innamorati al cinema (Il ponte sul fiume Kway, per tutti, con un mitico Alec Guinness) non esiste più, dobbiamo prendere piacevolmente atto che non esiste più neppure l’Italia che perde ai rigori, che gioca senza idee né schemi, portata al gol dal fuoriclasse di turno. Quella che ha rimesso dopo 53 anni l’Italia sul tetto dell’Europa è una nazionale moderna, con grandi professionisti che hanno introiettato il concetto di Nazionale al di sopra della propria squadra di club che a fine mese ti paga un ricco assegno. Non è né una Nazionale operaia né una Nazionale di fenomeni, ma una Nazionale di lavoratori che nel giro di tre anni hanno messo a frutto i loro talenti e costruito un gruppo compatto e solidale. E di quest’altra metamorfosi il merito va a Mancini che domenica sera, dopo aver visto passare davanti agli occhi la sua carriera come in un film gustando quel successo che gli era stato negato anni fa, non ha potuto fare a meno di commuoversi. Ed è giusto, salutare ed educativo che sia accaduto. Perché dell’impresa sportiva occorre capire e conservare il senso dell’impresa umana che c’è dietro e che potrebbe essere un buon modello per il Paese.
Il calcio ci ha fatto capire un pezzo di storia umana. Ci ha fatti riabbracciare come non facevamo da quasi due anni, anche se abbiamo esagerato un po’ e quasi certamente ne pagheremo le conseguenze alla dittatura del virus. Ci ha riportati a credere in qualcosa che appartiene a tutti senza essere di nessuno. Ci ha fatto riscoprire che siamo popolo, sia se stiamo in Italia che se viviamo all’estero, anche se a volte non ce ne ricordiamo. Una iniezione di fiducia e speranza che serviva dopo i giorni bui del covid. È questa la vera ragione per cui occorre dire grazie a Mancini e ai «ragazzi», come li chiama lui. Una riconoscenza profonda e che, anche se Donnarumma non avesse calato la saracinesca, sarebbe stata ugualmente dovuta e meritata. Così come abbiamo fatto ieri a caratteri cubitali, per la prima volta nella storia della Gazzetta con la testata a colori, ciò che davvero sentiamo di dire è ancora «Grazie Azzurri».