Forse qualcuno immagina che a Mario Draghi sia sufficiente un’alzata di sopracciglio per sedare le liti e castrare le ribellioni. Supermario di nome e di fatto. Un po’ come nell’imitazione del comico Maurizio Crozza con il premier-Muccioli che fa sfogare i «ragazzi», portandoli in giro, e poi li carica sul pulmino per riportarli nella «comunità», non europea ma di recupero («San Draghignano»), dove fa di loro più o meno ciò che vuole. L’immagine è un po’ forte ma rende l’idea di una specie di faraone che nessuno osa contraddire.
Effettivamente, se il massimo dell’accusa lanciata ai suoi danni da Giorgia Meloni, unica oppositrice, è il blando «non l’ho ancora inquadrato», qualcosa di vero deve esserci. Ma non fino al punto raggiunto dalla fantasia di comici e popolo. Per portare a casa un pezzo di riforma della giustizia, quello spinosissimo legato al processo penale e, dunque, alla prescrizione, il presidente del Consiglio è sceso in campo in prima persona. Ha trattato, mediato, s’è sporcato le mani fino a confezionare, insieme alla Guardasigilli Marta Cartabia, un compromesso che - se affidato solo alla loro volontà - non sarebbe stato tale. Altro che padre padrone. Non rileviamo lo sforzo a favor di agiografia, nonostante le derive critiche sul «premier che si è fatto uomo» abbondino in giro.
Tutt’altro, è esattamente il contrario: le riforme sono il punto di forza di Draghi (è lì per quello, sostanzialmente) ma anche la sua debolezza. Perché deve farle in fretta, deve farle al meglio delle italiche capacità e soprattutto deve farle per forza alla luce del vincolo che lega i provvedimenti all’arrivo dei denari del Recovery. Niente riforme, niente soldi. E i partiti lo sanno benissimo. Dunque strappano, provocano, ricattano perché tanto sono consapevoli che il Governo «non deve cadere» - un po’ come la Misery del romanzo di Stephen King non doveva morire - e dunque tutti, premier compreso, si rimboccheranno le maniche oltre il ragionevole per tentare una mediazione che tenga ognuno dentro, dalla sinistra di Leu ai sovranisti della Lega, dai giustizialisti pentastellati agli iper-garantisti azzurri. Il risultato, ahinoi, è destinato a tradursi in una sfilza di riforme sostanzialmente insufficienti, degli accordi all’italiana ammiccanti al più classico dei meno peggio.
Un vero peccato, in realtà, perché i provvedimenti sono forse più importanti degli stessi fondi europei che, grazie ad essi, dovrebbero riempirci le tasche. Sia perché quei soldi sono in prestito sia perché non c’è da giurarci che una quarantina di miliardi l’anno per sei anni - tanto vale il Recovery - trasformeranno lo sgarrupato Belpaese nella nuova Atlantide. È molto più probabile, invece, che tre, quattro o cinque riforme fatte a regola d’arte abbiano un effetto rimbalzo tale da rimettere, se non in piedi, almeno seduta la prostrata Italia. Nella maggior parte, oltretutto, si tratta di leggi di civiltà destinate a garantire diritti - come quello a un processo di durata ragionevole - che al momento sono carta straccia. Draghi lo sa bene e prova a tenere la barra dritta. Far saltare il banco chiuderebbe le porte ai fondi ma, cosa ancor più grave, bloccherebbe la strada del cambiamento sostanziale. Per questo il premier, tutt’altro che perso nel cielo sopra Bruxelles, proverà a cucire la tela fino all’ultimo, perdonando le mattane e le impuntature dei partiti. Ma se è vero che non ci sono poteri buoni, come cantava De Andrè, è anche vero che, in quest’epoca, non ne esistono di assoluti (per fortuna). Anche il premier ha dei limiti e qualcosa, riforma dopo riforma, deve lasciarla per strada come dimostra l’infilarsi della corruzione nella lista dei reati con termini di esame più lunghi. Un ingresso, all’ultimo secondo, concesso per calmare i 5 Stelle, al momento il movimento più inquieto fra tutti. Tra una mediazione e l’altra si andrà avanti così, finché tutto il pacchetto non sarà stato consegnato alla comunità. Questa volta europea.