Ricordate quella vecchia pubblicità del bagnoschiuma? «Sono solo fatti miei». Ecco, ora ribaltatela perché nessun conflitto potrebbe avere più riverberi della «Guerra dei Beppe», come è stata ribattezzata la sguaiata contesa che oppone l’ex premier Conte al fondatore Grillo per la conquista del trono a 5Stelle.
Non sono solo fatti loro, appunto, e non certo perché la faida tenga mezza Italia col fiato sospeso. Tutt’altro. Fra varianti in agguato, temperature tropicali ed Europei di calcio ci sono cose più stringenti ed appassionanti a cui dedicare energie. Il punto, però, è che la lite scoppia proprio nel crocevia più infuocato: ci sono le riforme da portare a casa, c’è il «semestre bianco» (dal 2 agosto) che incombe e, sullo sfondo, ma ben visibile, va in scena la partita per l’elezione del presidente della Repubblica. Praticamente, la tempesta perfetta.
E allora cosa potrebbe succedere se la frattura fosse impossibile da ricomporre? Come in ogni effetto domino, conta il cadere della prima tessera: se il Movimento 5 Stelle dovesse andare in frantumi - spaccandosi fra contiani e grillini doc - il centrosinistra perderebbe la propria egemonia politica in Aula.
Smarrita ormai da tempo la vocazione maggioritaria, ai dem non è rimasto altro che puntellare il centrosinistra con la «massa» parlamentare ed elettorale pentastellata, senza la quale le forze progressiste, tutto compreso, non si schioderebbero dal 25%.
E Conte sembrava, almeno fino a qualche tempo fa, l’uomo giusto per tenere saldo il ponte fra rossi e gialli, garantendo il «cessate il fuoco» delle mattane pentastellate nonché una serena permanenza in area riformista. Oggi, lo scenario è pressoché ribaltato: non è affatto scontato che il nuovo soggetto contiano appoggi il governo Draghi né che, a queste condizioni, l’alleanza con i dem possa reggere fino all’apertura delle prossime urne. Con rischi tellurici anche per le Comunali in arrivo.
Non solo, il neonato partito, probabilmente a vocazione ecologista e meridionalista, finirebbe per drenare voti e consensi - oltre che al M5S o a quel che ne resterà - anche a un Partito democratico non precisamente in grande spolvero. Da tutto questo non discende solo un rischio di disastro elettorale ma soprattutto un enorme pantano in Aula: spedire al Colle un’espressione del mondo progressista, almeno nella sua formulazione giallorossa, diventerebbe decisamente più complicato. Per paradosso, la golden share ce l’avrebbero gli altri, se la recente mutazione del «moderato» Matteo Salvini non lasciasse presagire lunghi tavoli di dialogo e mediazione dagli esiti impronosticabili. Di fatto, però, quella che era una mezza certezza è diventata un gigantesco punto interrogativo.
L’ultimo nodo, infine, è legato al tris di riforme a favor di Recovery: pubblica amministrazione, fisco e, soprattutto, Giustizia. Lo smembrarsi di un attore di primo piano nel processo di mediazione, arma la partita di un brivido non richiesto. S’è allarmata perfino la Lega («spero non ci siano ripercussioni sull’operato del Governo», ha chiosato Salvini) e c’è da giurare che il premier Mario Draghi non stia dormendo sereno. Non tanto per gli strali che potrebbero piovere sulla testa dell’esecutivo da una nuova forza d’opposizione, ma soprattutto perché quella forza rischia di tirarsi dietro chi, come l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede, non è disponibile a concedere sconti. Il treno dei soldi europei non aspetta nessuno, Mattarella è in scadenza e il centrosinistra non ha niente da mettersi. Tutti col fiato sospeso, allora. E tutti appesi alla «Guerra dei Beppe». Non sono solo fatti loro.