Nel 1965 si tenne a Gardone un congresso dell’Associazione nazionale magistrati che avrebbe segnato il successivo sviluppo della magistratura italiana. Seppur in una prospettiva assai differente rispetto a quella attuale, il congresso segnò infatti il debutto delle correnti, che avrebbero progressivamente condizionato il «parlamentino» delle toghe prima e l’organo di autogoverno poi, con tutti gli sfasci e le deviazioni che conosciamo.
«Corrente» era sinonimo di un’ala della magistratura che aveva un determinato orientamento (anche rispetto alla Costituzione) destinato a riflettersi sull’interpretazione della legge, nella consapevolezza che il giudice non è la bouche de la loi tanto cara a Montesquieu.
Oppure, potremmo dire oggi, un elaboratore che agisce secondo un algoritmo, ma vive nella società e applica le norme tenendo conto di una serie di variabili. Magistratura indipendente, Magistratura democratica, Terzo potere, ebbero in poco tempo il loro battesimo. Un fine nobile, insomma.
Quanto sia distante questa contrapposizione dialettico-culturale dall’attuale assetto delle correnti, veri e propri centri di potere che dettano legge sul conferimento degli incarichi apicali, con accordi e scambi reciproci degni di un manuale Cencelli ed emarginazione dei magistrati non allineati, destinati – anche se di grande qualità – a rinunciare ad ogni aspettativa di carriera, è a tutti evidente. Con buona pace per il merito, che pure dovrebbe essere il faro di ogni scelta in materia, tenuto conto dell’estrema delicatezza delle attività che svolge chi riveste incarichi dirigenziali in grado di condizionare il funzionamento della macchina della giustizia.
Una realtà esplosa davanti agli occhi di tutti con il caso Palamara, ma che agli addetti ai lavori era nota da tempo e, quel che è peggio, accettata e data per scontata. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura da garanzia a privilegio, da strumento per tutelare il singolo magistrato da pressioni e condizionamenti a trionfo dell’autoreferenzialità.
Riuscirà la Cartabia a sparigliare le carte del Csm?
Che le buone intenzioni vi siano – e siano tante – non vi è da dubitare.
Che i risultati auspicati possano essere realmente raggiunti è difficile dirlo.
La riforma Cartabia si innesta – come le altre riforme in materia di giustizia – sul ddl Bonafede proposto dal guardasigilli pro tempore e poi accantonato. Si propone, in primo luogo, un ampliamento numerico (da 24 a 30) dei componenti del Csm – reso possibile senza interventi sulla Costituzione che impone solo un rapporto di 2/3 a 1/3 tra togati e laici – legato alla riconfigurazione della sezione disciplinare. Un ritorno al passato. Davvero utile? Va ricordato che quel rapporto tra laici e togati è una scelta del nostro Paese, ma che non mancano in altri ordinamenti rapporti paritari o quasi paritari tra laici e togati. Si potrebbe anche prendere in considerazione – ipotesi solo apparentemente eversiva – di attribuire previa revisione costituzionale al presidente della Repubblica – che, certo, è già il presidente del Csm ma con un ruolo di fatto defilato, se si eccettuano eccezioni come quella di Francesco Cossiga – il potere di nominare un certo numero di consiglieri. Al fine di riequilibrare i poteri tra le singole componenti, del resto, la stessa Commissione Luciani nominata dalla ministra Cartabia propone la nomina del vicepresidente, figura chiave nelle dinamiche del Csm, da parte del Capo dello Stato, che dovrebbe operare tale scelta tra i membri laici espressione delle varie forze politiche.
l’idea accantonata E poi, la proposta sicuramente più interessante, nata da un input di Luciano Violante. L’istituzione di un’Alta corte per i giudizi disciplinari dei magistrati, che conferirebbe autonomia ai procedimenti disciplinari come avviene in tanti altri contesti. Singolare che la sua attuazione – che renderebbe inutile l’ampliamento numerico del Csm – venga differita ad altro intervento normativo.
È sul sistema elettorale che si concentrano le maggiori attenzioni, proprio al fine di sradicare (o quanto meno ridimensionare) quel correntismo che porta a formare vere e proprie liste e cordate per conquistare gli ambiti scranni di Palazzo dei Marescialli.
Saranno sufficienti le nuove regole elettorali un po’ farraginose a smantellare le correnti? Certo, prevedere un numero minore di proponenti per potersi candidare è una buona idea – ma uno dei referendum radical-leghisti elimina in toto la raccolta delle firme – sebbene un approccio realistico induce ad essere un po’ scettici. Non è la prima volta che si modificano tali criteri al fine di contrastare le correnti (una per tutte, la legge 12 aprile 1990, n. 74), con risultati talora controproducenti. Il fenomeno correntizio, del resto, è un fenomeno culturale profondamente radicato che nessuna norma potrà estirpare, ma solo un graduale rinnovamento all’interno della stessa magistratura potrà veramente sradicare.