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Uno scoglio dopo l’altro per la ripresa

 
Roberto Calpista

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Roberto Calpista

Uno scoglio dopo l’altro per la ripresa

Un anno di pandemia e sette giorni di blocco del Canale di Suez hanno fatto riscoprire un mondo che è come la vita, senza certezze

Martedì 30 Marzo 2021, 14:52

Sono ormai gli emblemi della fragilità di una globalizzazione senza freni: un anno di pandemia e sette giorni di blocco del Canale di Suez hanno fatto riscoprire un mondo che è come la vita, senza certezze. In balìa dell’inatteso.
«Ever Given», si chiama così il cargo portacontainer con bandiera di Panama che martedì scorso si è arenato in quel corridoio navigabile che unisce il Mar Rosso al Mediterraneo, il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest del pianeta. 219079 tonnellate distribuite su circa 400 metri di lunghezza, messi di traverso sul Canale. Un tappo a monte e a valle che ha creato un ingorgo di petroliere e mercantili.
Da ieri la nave, diretta a Rotterdam, ha ripreso a navigare per uscire nel Mediterraneo alla velocità di 7 nodi. Una lumaca che per ogni minuto perso piega ulteriormente la curva di un’economia già piagata dal Covid.
I mercantili in attesa di poter entrate nel Mare Nostrum attraverso l’Egitto trasportano prodotti di ogni tipo: petrolio, farmaci, alimentari, pezzi dell’industria automobilistica, semi lavorati e tecnologici, cereali, cemento, auto di lusso, portacisterne d’acqua, e persino animali vivi. Sono rimasti lì fermi in attesa, per giorni, che i vari rimorchiatori impegnati nel disincagliamento riuscissero a liberare il passaggio ed evitare un mastodontico rischio per l’economia mondiale.
Dal canale di Suez ci passa il 30% delle merci trasportate via mare e il 12% del commercio globale nel suo complesso, e secondo i calcoli di Lloyd’s il costo dello stop è di circa 400 milioni di dollari all’ora, con un valore dei beni che ogni giorno transitano di circa 9,6 miliardi di dollari. Tanto per avere un’idea nel 2020 la quantità di merci transitate dal canale di Suez ha superato il miliardo di tonnellate, per un totale di 18.829 navi. Ed è strategico soprattutto per il commercio del petrolio a livello mondiale.
Naturalmente, il fermo, che ha già colpito l’economia dell’Egitto, sta diventando una ghiotta occasione per altri. È il capitalismo, con il pesce grosso che appena può mangia quello piccolo. La Russia, ad esempio, ha già proposto di dirottare il traffico marittimo dall’Oriente verso il Mediterraneo e l’Europa per la Northern Sea Route, tra Atlantico e Pacifico lungo la costa della Siberia. Qualche armatore ha ripreso le rotte intorno al Capo di Buona Speranza, all’estremità meridionale dell’Africa, riportando il mondo indietro di secoli.
L’Italia sta nel mezzo, in ogni caso, e la Puglia ancora di più. «Difficile fare una stima dei danni reali - spiegano alcuni studiosi -, a maggior ragione in questo momento in cui le nostre economie stanno già pagando un prezzo drammatico alla pandemia».
Gli analisti di questioni agricole non hanno dubbi. I settori più penalizzati sono quelli che esportano verso la Cina, che nel 2021 registra un aumento record superiore al 29%. Alimentare, abbigliamento, mobili, macchinari. I quattro grandi settori dell’export italiano tremano. Quello verso la Cina vale 548 milioni solo di alimentari. Olio, vino, pasta, ovvero soprattutto Sud Italia.
Il rischio è l’incremento dei prezzi delle merci, che hanno già subito rincari in conseguenza alla pandemia globale. Quanto sta succedendo, inoltre, avrà un impatto importante anche sui prezzi del petrolio, con l’aumento dei costi energetici per un Paese come l’Italia dove l’85% dei trasporti commerciali avviene su strada. La conseguenza potrebbe dunque essere un effetto valanga sulla spesa per l’aumento dei costi di trasporto oltre che di quelli di produzione, trasformazione e conservazione. In un momento in cui le aziende sono già in ginocchio. E le cattive notizie non finiscono qui, perché sempre secondo le associazioni agricole, a subire gli effetti del costo del carburante sarà l’intero sistema agroalimentare, in cui la spesa per la logistica arriva ad incidere fino dal 30%-35% sul totale dei costi per frutta e verdura. Il Sud Italia, appunto.

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